L’anomala conclusione della Fase 4.
Scrivevamo nel 2018, a proposito di Black Panther: “il cinema riflette il cambiamento: Hollywood, mai come oggi forse portavoce di un risveglio delle coscienze urgente e necessario, rilascia opere come Get Out e Moonlight, un horror il primo e un dramma LGBT il secondo. E Black Panther, appunto: che non è quindi possibile leggere “solo” come un cinecomic, visto che ormai “solo” cinecomics non sono più. Giustamente allineato, il film di Coogler (già autore del bel Creed) acquisisce così un valore politico, umano e sociale aggiunto, che si sommano ad un impianto visionario neanche da poco”.
Quattro anni dopo, sempre Ryan Coogler firma il seguito di quello che è stato uno dei più grandi successi dei Marvel Studios, e la prima grande produzione quasi interamente all black: scomodando altri autori, più le cose cambiano, più restano uguali. Oggi non c’è Donald Trump nella posizione più alta degli Stati Uniti, e purtroppo non c’è neanche più Chadwick Boseman, interprete del protagonista; ma contemporaneamente, l’America è sempre terra di frontiera per quanto riguarda i diritti civili e tutto quello che ne consegue, e i Marvel Studios continuano imperterriti a ricalcare la geopolitica mondiale, spiegandola e rispiegandola per il pubblico mainstream.
Il risultato è questo Wakanda Forever, chiusura perfetta per la Fase Quattro che è stata la più ardita e sperimentale del lungo sentiero, costellato di successi, che la casa di produzione ha percorso innovando profondamente il tessuto produttivo e narrativo del cinema mondiale. Perché il film riflette sull’accettazione della morte adagiandosi sul senso di perdita, intridendo il racconto di una malinconia soffusa e delicata: in relazione alla famiglia e al tempo che passa, in linea con le storie passate in tv e sul grande schermo. Così come WandaVision, Loki, Hawkeye e Ms. Marvel, anche Wakanda Forever mette al centro la famiglia: e come She-Hulk, seppure involontariamente, corre su un doppio binario inconsapevolmente metaletterario mentre sovrappone arte e finzione.
Ma il film di Coogler eleva tutto all’ennesima potenza, sfruttando al meglio la dolorosa perdita del suo attore principale: l’assenza di Boseman è quindi il pretesto per una storia che prende diversi fili del mosaico narrativo Marvel – la contessa Allegra de la Fontaine, la sempre più invasiva presenza dei mutanti, il nuovo posto del Wakanda nell’economia di potere dell’universo MCU – e parla di come passato e presente siano inestricabilmente legati. Ma non solo.
Introduce un nuovo, centrale protagonista, Namor il Submariner, reinventandone in maniera intelligente le origini ma lasciandone inalterata l’essenza e il carattere; e soprattutto fa sì che l’elaborazione del lutto si fonda con una trama smaccatamente politica. Mettendo in gioco aspetti della realtà che ne modificano (così come era successo nel 2018 con Black Panther) la percezione: scontri tra potenze, interessi macroeconomici, invasori e invasi sono le linee che corrono insieme e rimandano al conflitto ucraino, restituendo un’opera monstre intima e realmente, dolorosamente commovente nel momento in cui si fa dramma personale, e action quanto mai attuale e urgente senza nessuna sbavatura nell’ovvietà quando segue le dinamiche guerrafondaie dei personaggi.
Un film anomalo, che contrariamente al resto della produzione Marvel (basti pensare all’appena precedente Thor: Love & Thunder, o al quasi contemporaneo serial She-Hulk) non cerca mai di far ridere, cercando e trovando la strada per la commozione.
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