Il cinema replicante di Denis Villeneuve.
È inutile negarlo o girarci attorno, da quando è trapelato che Denis Villeneuve si sarebbe cimentato nel sequel di Blade Runner in molti, dopo essersi strofinati ben bene le mani, hanno imbracciato i fucili, in trepida attesa di un passo falso, pronti a fare fuoco. Adesso che Blade Runner 2049 è uscito, adesso che il pubblico e la critica possono finalmente vederlo e giudicarlo, pare davvero difficile e arduo che qualcuno possa dirsi offeso o indignato dal sequel di uno dei film più amati e venerati del XX secolo. Prodotto dallo stesso Ridley Scott, che dopo aver accarezzato l’idea di dirigerlo ha scelto di non confrontarsi in prima persona con uno dei suoi titoli di culto ma di affidarne la regia al talentuoso cineasta canadese, Blade Runner 2049 si propone di esplorare e andare ad approfondire tematiche e argomenti appena accennati nel capostipite uscito nel 1982. Il film di Villeneuve è talmente complesso, stratificato e denso di significati da giustificare in pieno le oltre due ore e mezza di durata, necessarie per sviluppare un discorso profondo e articolato sulla memoria, i ricordi e i legami affettivi (che appartengano agli umani o ai replicanti poco importa, dal momento che questi ultimi si sono sempre dimostrati more human than human).
Il regista canadese e il direttore della fotografia Roger Deakins (qui alla loro terza collaborazione dopo Prisoners e Sicario) si mantengono fedeli alla messa in scena e all’estetica del primo Blade Runner per quanto riguarda la Los Angeles futuristica, una metropoli che di fatto sembra essere una via di mezzo tra Tokyo e New York. Pur mostrando un pieno e assoluto rispetto nei confronti del film di Scott, Villeneuve cerca di spingersi oltre, di conferire un’impronta personale e originale a 2049, che quando si allontana dalle ambientazioni notturne metropolitane sembra voler evocare scenari e atmosfere più vicine alla fantascienza europea, con un palese ed evidente rimando a Stalker di Andrej Tarkovskij.
Qualche mese fa, sempre su questo sito avevamo speso parole di apprezzamento su Arrival, prima incursione nel genere sci-fi di Villeneuve, una sorta di palestra di allenamento in vista del compito – ben più rischioso e insidioso – che lo attendeva nel confrontarsi con un’opera iconica e leggendaria come Blade Runner. In entrambi i casi, pur con i dovuti e necessari distinguo, si tratta di fantascienza umanista di stampo filosofico, con al centro l’uomo (o il replicante) e il suo innato bisogno d’amore e di legami familiari. Villeneuve non è interessato più di tanto ad accentuare gli aspetti spettacolari, a sbalordire e stupire con effetti speciali mirabolanti, che ovviamente ci sono ma risultano ben dosati e mai preponderanti rispetto alla storia articolata e complessa che si dipana sullo schermo e che richiede la massima attenzione da parte dello spettatore. Le sequenze d’azione sono centellinate, come già accadeva nel primo Blade Runner. Il timore di assistere a un sequel commerciale pensato per e rivolto alle nuove generazioni è ampiamente scongiurato. È assai probabile invece che chi non conosce o non ama particolarmente l’universo di Blade Runner rimanga spiazzato e interdetto dopo averne visto il seguito, un film d’autore destinato a cinefili e appassionati dal palato fine e esigente che – fortunatamente – sembra destinato a deludere e annoiare chi è cresciuto a suon di cinecomics roboanti e fracassoni (difficilmente farà sfracelli al botteghino).
Le musiche firmate da Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, subentrati al compositore Jóhann Jóhannsson che aveva già lavorato con Villeneuve per Prisoners, Sicario e Arrival sono potenti, evocative e distorte, un perfetto e riuscito connubio coi paesaggi desolati, fatiscenti e post industriali di buona parte del film.
Harrison Ford torna nei panni di un Rick Deckard invecchiato e immalinconito, terzo (e ultimo?) personaggio iconico che si ritrova a reinterpretare dopo quelli di Han Solo e Indiana Jones (di cui si appresta a riprendere frusta e cappello per la quinta volta). Ryan Gosling si dimostra perfetto nel ruolo dell’agente K, replicante di ultima generazione incaricato di dare la caccia e “ritirare” i vecchi modelli. Il suo è un percorso di sofferta e dolorosa presa di coscienza della propria condizione e del proprio essere, che si accompagna alla struggente e straziante storia d’amore virtuale e impalpabile con Joy, l’ologramma in cerca di un’anima e di un corpo impersonata dalla bellissima Ana de Armas (che rimanda a due personaggi femminili altrettanto strepitosi interpretati da Zoe Kazan e Scarlett Johansson, rispettivamente in Ruby Sparks e in Her).
Un progetto ambizioso e coraggioso, una sfida affrontata con acume e vinta sotto molteplici aspetti. Plumbeo quanto il suo predecessore (se non di più), visivamente abbacinante, lontano anni luce dai confusi e frenetici blockbuster americani contemporanei, Blade Runner 2049 consacra definitivamente Denis Villeneuve al rango di autore. Il regista canadese decide di osare, non si limita al compitino pulito e anonimo, si spinge in territori nuovi e inesplorati dal film di Ridley Scott e riesce a dar vita ad un immaginario nuovo, suggestivo e dirompente. Se a distanza di trentacinque anni il primo Blade Runner continua a dimostrarsi terribilmente e fascinosamente attuale e contemporaneo, siamo quasi certi che anche il sequel resisterà all’usura del tempo, suscitando riflessioni, dibattiti e discussioni nei decenni a venire. Almeno fino al 2049, almeno fino al prossimo temerario che avrà l’ardire di prenderne il testimone per portarci nelle colonie extramondo e mostrarci cose che noi umani non potremmo immaginarci.
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