Un thriller dolente e doloroso.
Bring me home, il film di chiusura della 18esima edizione del Korea Film Fest, svoltasi sia in presenza al cinema La Compagnia di Firenze – ma senza poter ospitare registi e interpreti coreani a causa della pandemia da Covid-19 – sia in streaming grazie alla collaborazione con MyMovies, vede il ritorno sulle scene di Lee Yeong-ae, la sublime e magnetica protagonista di Lady Vendetta, il terzo e ultimo capitolo della trilogia della vendetta di Park Chan-wook. Nonostante negli ultimi quattordici anni si sia dedicata alla famiglia più che alla carriera da attrice, Lee Yeong-ae in Bring me home, sorprendente e robusta opera prima di Kim Seung-woo, dimostra di essere ancora un’interprete straordinaria, capace di calarsi con grande intensità e ispirazione nei panni di una madre alla disperata e affannosa ricerca del figlio scomparso da diverso tempo, quando aveva appena sei anni. Un giorno la donna, alle prese con un nuovo e lacerante trauma, riceve una chiamata anonima che la avverte che il suo bambino, ormai dodicenne, potrebbe essere tenuto prigioniero in un villaggio di pescatori abitato da una piccola comunità composta da gente senza un briciolo di umanità.
È difficile, nel panorama internazionale odierno, trovare una cinematografia capace di intessere e mettere in scena delle storie plumbee, oscure e potenti come fa da anni l’industria coreana. Chi ama e segue il cinema coreano del nuovo millennio si è ormai piacevolmente abituato alla visione di film di genere che spesso e volentieri uniscono impegno e intrattenimento, mettendo alla berlina gli aspetti più oscuri, complessi e contraddittori della società coreana. Bring me home è un thriller (il genere per eccellenza della cinematografia sudcoreana che ad esso deve le sue fortune e gran parte della sua fama e visibilità internazionale) che si mescola e contamina col mystery e col dramma sociale e familiare. Il regista esordiente, di cui probabilmente sentiremo parlare ancora negli anni a venire, ha curato in prima persona il soggetto e la sceneggiatura, uno dei punti di forza del film incentrato su una storia cruda e angosciosa in cui non si salva quasi nessuno, se non i bambini – vittime innocenti alla mercé di gente mostruosa e disumana – e la protagonista, una madre forte e coraggiosa disposta a lottare contro tutto e tutti pur di ritrovare il figlio. Un film dolente e doloroso, come i pochi personaggi “positivi” che lo abitano, in balia della ferocia e della crudeltà di esseri umani che di umano hanno ben poco, costretti a difendersi per cercare di sopravvivere in un mondo di lupi.
Kim Seung-woo, come altri cineasti coreani ben più famosi e blasonati di lui quali Bong Joon-ho e Park Chan-wook, dimostra di avere una visione piuttosto pessimistica dell’animo umano nel costruire con forza e maestria una storia cupa, sanguinaria e violenta che non fa sconti a nessuno, evitando con coraggio e rigore le insidie di un possibile lieto fine, che a conti fatti sarebbe risultato abbastanza posticcio e scontato, per sorprendere lo spettatore con un epilogo che nonostante tutto infonde speranza e fiducia e dimostra quanto a volte la vita, nel bene e nel male, possa riservare delle sorprese inattese e inaspettate.
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