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Una scintilla di umanità e verità.

Occorrerebbe porsi qualche domanda su che cosa chieda il pubblico all’industria cinematografica, e come questa risponda al fabbisogno dello spettatore. Che cosa cerca, e cosa vuole il pubblico oggigiorno? Vuole indignarsi e puntare il dito contro un’istituzione come suggeriscono le battaglie civili di Il caso Spotlight o Truth – Il prezzo della verità? Cerca prodotti di genere anticonformisti (ma lo sono davvero?) come i recenti supereroistici Deadpool e Lo chiamavano Jeeg Robot? O forse, punta ad un cinema che vorrebbe essere bigger than life e non sa guardare oltre l’ombelico della propria roboante messa in scena? (come Revenant – Redivivo). Premi “ufficiali” e cifre al botteghino sembrerebbero dare ragione a queste ipotesi. Ma poi arriva, timido, e nelle nostre sale pure fuori tempo massimo, un melodramma come Brooklyn, lasciando pensare che forse oggi la vera alternativa ad un cinema troppo inchiodato nelle proprie certezze sta in prodotti come questo.
Tratto da un romanzo di Colm Tóibín, ben adattato con tono garbato e intelligente da un altro romanziere come Nick Hornby (che probabilmente farebbe bene a dedicarsi solo al cinema viste le ultime prove letterarie), Brooklyn non ambisce di certo a scuotere visceralmente gli animi della platea, non racconta nessuna rivoluzione epocale, preferisce concentrarsi sulla storia, quella con la s minuscola, di una giovane immigrata irlandese (Saoirse Ronan, bravissima e trattenuta, alla sua prova migliore) che, spinta dalla sorella maggiore, va a vivere nella sconfinata e spaventosa America, nel distretto che dà il titolo alla pellicola, notoriamente conosciuto come destinazione “obbligata” per la maggior parte dei cittadini italiani e irlandesi della Grande Mela. Da un lato il conforto del focolare domestico, l’affetto dei propri cari, la sicurezza di un lavoro “facile”, ma anche la consapevolezza di un futuro privo di grandi aspettative o sorprese. Dall’altro, la vita in un paese sconosciuto, la difficile convivenza con le altri abitanti di un pensionato, e soprattutto la nostalgia della terra natia. Ma poi arriva l’amore, da parte di un intraprendente idraulico di origini italiane, e la timida Eilis comincia a sentirsi a casa, accettata, protetta. Che possa davvero essere l’inizio di una nuova vita? Quello diretto da John Crowley (da recuperare almeno il bellissimo e duro Boy A) è un melodramma che guarda al passato sì, ma nell’accezione più positiva del termine: rivolge il proprio sguardo indietro nel tempo, con piglio e ottimismo verrebbe da dire fordiani. Il richiamo (a Sentieri selvaggi) è esplicito: Eilis arrivata a Ellis Island esce dalla quarantena spalancando la porta sull’immensità luminosa e accecante di un paese e un futuro a lei sconosciuto. Ma a tornare, in Brooklyn, non sono solo reminiscenze visive, è lo spirito di quel cinema ormai perduto e lontano nel tempo a impregnare la pellicola di Crowley: la città è ritratta con tutti i suoi aspetti positivi e negativi, nel suo marasma di vitalità e culture. Ma c’è grandissima umanità nei personaggi che popolano l’America narrata dal regista e da Hornby. Al contrario di altro cinema americano (e non) di recente memoria che ha tentato di narrare le origini della nazione e della sua città più emblematica, impantanandosi nei soliti schematismi di decadenza e corruzione (basti pensare a The Immigrant, a Gangs of New York, ma anche a serial televisivi come il nerissimo The Knick), in Brooklyn si respira un sentimento di reale fede e possibilità di un domani migliore, di calore e umanesimo, in cui i sentimenti hanno ancora un valore, dove tutto verte attorno ad essi. Le magagne di una realtà che vorrebbe accogliere tutti senza forse averne le possibilità non sono cancellate o edulcorate, ma sono saggiamente equilibrate da un tono gentile, educato e, passateci il termine di cui ormai si abusa, classico. Il prete (Jim Broadbent) che in America aiuta Eilis ad integrarsi, a trovare un lavoro e a farsi un istruzione, lo fa senza secondi fini e con vero spirito caritatevole, ma con l’intelligenza disincantata di chi sa che, se da una parte dell’oceano la situazione non è facile, da quell’altra è ancora più disperata. In tutti i protagonisti di Brooklyn è possibile rintracciare una scintilla di umanità e verità, ormai assente negli schemi prefissati di tanto cinema “a tesi” che arriva sui nostri schermi. La padrona di casa di Eilis (una magnifica e simpaticissima Julie Walters) è severa e strettamente legata ai dettami cattolici della propria religione, ma sa riconoscere il valore e la tenacia della ragazza che ospita. La donna, che dirige la boutique dove lavora la protagonista, pare inflessibile e dura, ma sa aprirsi alla sofferenza dei suoi dipendenti, eccetera eccetera. Ogni stereotipo in Brooklyn (come la famiglia di italiani mangia-spaghetti e tifosi del baseball di Tony) è compensato da una sfumatura che riesce a conferirgli autenticità e rilevanza. A dispetto di mode e logiche commercial-filosofiche imperanti, Brooklyn è un film che riporta la semplicità dei sentimenti al centro del discorso cinematografico, dove è ancora possibile commuoversi assieme alla protagonista, e non per lei a causa delle sue innumerevoli disgrazie e sofferenze. E così, quello che alla fine può apparire solamente come l’ennesimo racconto di formazione, in cui imparare a vivere significa anche, in particolar modo, imparare ad amare, è anche un esempio di cinema che mette in discussione tante cose, che si colora di toni nostalgici per dirci che per andare avanti dobbiamo saper abbandonare il passato. Se ci sia, nel mondo contemporaneo, ancora spazio per un cinema così trasparente, candido e onesto, è una domanda a cui è difficile dare una risposta, ma di certo Brooklyn ci sembra un film più necessario e attuale di tanti altri prodotti che sentono il bisogno di urlare la loro “significanza” ad ogni inquadratura.

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Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".