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CENERENTOLA

CENERENTOLA

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Un live action intelligente e simpaticamente demodé.

Si tratti di adattare un classico di Shakespeare, il capolavoro di Mary Shelley, un fumetto su un supereroe della Marvel, o, in questo caso, ridare vita in versione live action ad uno dei più famosi film d’animazione della Disney, Cenerentola, Kenneth Branagh mostra (quasi) sempre mano felice. E’ rispettoso dei materiali originari senza essere eccessivamente rigoroso, compie sagge operazioni di adattamento che non sminuiscono o alterano il senso dell’opera di partenza, omaggia gli elementi fondativi senza diventare pedante o scontato. Un percorso netto, verrebbe da dire, che ha sempre ambito ad un unire la sua anima “classica” e colta ad un gusto sanamente popolare.

Branagh e il suo sceneggiatore Chris Weitz (uno dei due fratelli dietro ai finti eccessi di American Pie, nonché autore di About a Boy, Z la formica e del prossimo spin off di Star Wars, Rogue One) si avvicinano alla fiaba di Cinderella senza operare le discutibili operazioni di revisionismo già tentate dalla Disney in Alice in Wonderland di Tim Burton (nadir della carriera del regista di Burbank, che mescolava freddo digitale e insulse impennate proto-femministe) o in Maleficent di Robert Stromberg (o nel coacervo Biancaneve e il cacciatore, anche se non firmato dalla Disney) nel quale si tentava di ridare spessore alla figura (femminile) del villain, cercando una giustificazione logica a cotanta malvagità (in entrambi i casi imputabile all’avidità e cupidigia del maschio).

Come dicevamo, Branagh & Weitz, per questo ennesimo adattamento della fiaba di Cenerentola, si attengono scrupolosamente al loro materiale di partenza, in questo caso il cartoon Disney datato 1950 che ha segnato indelebilmente l’immaginario popolare. Ed è in questa sfrontata fedeltà che il film trova la sua forza e ragion d’essere: Branagh lavora su materiali consolidati e non dimentica mai di aver a che fare una fiaba, ma se da un lato cita ogni sequenza cult e ogni personaggio passato alla memoria collettiva, evita però di diventare puerile e scontato (così non mancano nemmeno i topini che aiutano la protagonista a cucire il vestito per il ballo, ma non sono antropomorfizzati come nel cartoon). Certo, siamo nel 2015, e difatti il digitale non manca, ma Branagh non ne abusa mai, lo utilizza semmai per assecondare il suo gusto quasi wagneriano per la composizione dell’immagine e il maestoso uso delle scenografie (a partire dalla sequenza del ballo nel palazzo del Re).

La grandeur spettacolare non cede però mai il passo ad una vicenda che resta ancorata a terra, tra personaggi piacevolmente semplici che “propagandano” valori come coraggio e gentilezza, senza l’aggiunta di pesanti sottotesti attuali e “politici”, a cui ogni blockbuster odierno pare aver fatto l’abbonamento. Con gusto anacronistico il film rifiuta anche la morale indipendente ed emancipante che dopo Frozen (un simpatico cortometraggio-sequel del quale apre la pellicola) pare diventata una costante delle fiabe di casa Disney. No, qui si torna con piglio demodé all’ideale del prince charming, che in sella al suo bianco destriero arriva a salvare la donzella in difficoltà. Ma non se ne faccia un problema. Garbato e divertente il film di Branagh azzecca pure un paio di momenti di sincera commozione (la morte del padre di Cenerentola, la benedizione da parte del re al figlio), ma sarebbe ingiusto non attribuirne parte del merito al cast perfettamente selezionato: Lily James, bellissima e dolce Cinderella (al contrario dell’insopportabile “bella addormentata” Elle Fanning); Cate Blanchett, superlativa matrigna che agita pose alla Gloria Swanson di Viale del tramonto (quasi identico a quello del film di Wilder il finale sulla scalinata); la sorprendente Helena Bonham Carter, fata madrina che aggiunge un tocco weird e burtoniano ad una fiaba sin troppo “anodina”; ed è lussuoso e perfetto anche il resto del casting (Derek Jacobi è il re, Stellan Skarsgard il gran duca, Richard Madden un simpatico principe azzurro). Nulla per cui gridare al capolavoro, s’intende, ma di questi tempi è già qualcosa.

voto_3

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".