Sign In

Lost Password

Sign In

CIVILTÀ PERDUTA

CIVILTÀ PERDUTA

Lost City of Z foto1

Il cinema perduto di James Gray.

A pensarci bene The Lost City of Z, il nuovo film di James Gray uscito da poco in Italia con un titolo – Civiltà Perduta – assai meno efficace e evocativo di quello originale, esemplifica perfettamente l’idea e il modo di fare cinema del regista e sceneggiatore newyorkese. Imperfetto, coraggioso nello spingersi sempre oltre i propri limiti, in cerca di nuovi stimoli e di nuovi territori da esplorare. Con sguardo fisso verso l’orizzonte, alla ricerca costante di un altrove, non ha paura di osare e d’impantanarsi, di zoppicare o caracollare pur di fare evolvere e allargare i confini del suo cinema. Per Gray ogni nuovo titolo, ogni nuovo lavoro sembra rappresentare una sfida con se stesso e con l’establishment hollywoodiano con cui è obbligato a fare i conti. L’autore americano insegue un modello produttivo e un’idea di cinema pura e romantica ormai tramontate da tempo. La sua filmografia parla da sola, comunica in modo inequivocabile come non sia disposto a scendere a patti o compromessi col sistema, del tutto incurante delle mode del momento o dei gusti e delle preferenze del pubblico odierno.
Nel contemplare le immagini potenti e gli scenari suggestivi del suo ultimo lavoro si percepiscono la fatica, il sudore, le mille traversie e i vari ritardi produttivi che ne hanno caratterizzato le riprese (sei anni per portarlo a termine, problemi di budget e la defezione di Brad Pitt che avrebbe dovuto esserne il protagonista, rimasto poi in veste di produttore esecutivo). Ispirato al libro omonimo di David Grann, The Lost City of Z è la storia (vera) di un’ossessione, quella del maggiore inglese Percy Fawcett che agli inizi del secolo scorso venne inviato in Sud America dalla Royal Geographical Society, per mappare la zona di frontiera tra Bolivia e Brasile. L’esploratore inizialmente si lanciò in quest’avventura per riabilitare il nome della propria famiglia e fare carriera per poi venirne rapito e stregato in seguito ai ritrovamenti di alcuni reperti che lo convinsero dell’esistenza di un’antica civiltà scomparsa. Nel corso di circa vent’anni, tra il 1906 e il 1925, Fawcett fu protagonista di diverse spedizioni nella Foresta Amazzonica, rinunciando all’affetto di moglie e figli pur di ritrovare la città perduta che avrebbe testimoniato l’esistenza di una civiltà evoluta ben più antica di quelle occidentali. Un’avventura e una sfida, prima di tutto con se stessi, ambientata in scenari e contesti già protagonisti di opere monumentali di autori del calibro di Francis Ford Coppola (Apocalypse Now) e Werner Herzog (Aguirre, Fitzcarraldo), da cui non si può prescindere nell’analizzare il film di Gray. Se questi riferimenti appaiono scontati, lo sono un po’ meno quelli che riconducono ad un altro cineasta enorme come Michael Cimino, che nel corso della sua breve ma intensa carriera (sette film all’attivo in un arco temporale che abbraccia poco più di due decadi) è sempre stato ostinato e determinato a perseguire la propria idea di cinema, fregandosene delle conseguenze più nefaste e deleterie e delle ritorsioni di un’industria che in seguito al disastro economico causato dall’insuccesso commerciale di Heaven’s Gate lo costrinse ai margini e ad una forzata inattività. Gray sembra provenire dalla stessa epoca, gli anni ’70 della Nuova Hollywood con cui è cresciuto e si è formato, ma nei suoi lavori dimostra anche una profonda conoscenza e dimestichezza nei confronti del cinema europeo, arrivando in questo ultimo film a citare a sorpresa la celebre carrellata dal treno nell’epilogo de I vitelloni di Federico Fellini, con la macchina da presa che attraversa le stanze di casa Fawcett dove dormono la moglie e i figli più piccoli del protagonista, che si allontana e si accomiata un’ultima volta dai propri cari in compagnia del primogenito.
Sfaccettato, complesso, girato in 35mm e impreziosito dall’eccelsa fotografia del grande Darius Khondji, Civiltà Perduta ha una lenta carburazione, con una prima parte in cui si fatica a entrare nella storia e ad appassionarsi alle vicende narrate dall’autore newyorkese, che richiede e esige la massima attenzione e concentrazione da parte del pubblico. Siamo al cospetto di un’opera che di fatto proviene da un’altra epoca, contraddistinta da una diversa sensibilità e da tempi e respiri a cui lo spettatore odierno (purtroppo) non è più abituato.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.