Una biografia sentimentale d’Europa.
Ida (2013), il precedente film di Pawel Pawlikowski, riusciva nella sua apparente semplicità a rileggere il passato della Polonia e a scandagliare l’anima profonda del paese attraverso i due caratteri protagonisti, la novizia Anna (il cui vero nome era appunto Ida) e sua zia Wanda: l’uso del formato 1.37:1 era infatti funzionale al dramma vissuto dalle due donne, prigioniere l’una di un compromesso col regime (la zia); e della paura di aprirsi alla vita fuori dal convento dov’era cresciuta l’altra, la più giovane. Trovato un filone (Ida aveva vinto l’Oscar per il miglior film straniero), è comprensibile che l’autore polacco, giunto appena al sesto lungometraggio in vent’anni, voglia sfruttarlo ed ecco quindi che ritornano il bianco e nero accurato, il formato classico dell’inquadratura, lo scavo nel triste passato sotto l’egemonia comunista, la musica come motivo “accessorio” (nel film del 2013, la giovane protagonista si innamorava di un sassofonista), oltre a parte del cast (Joanna Kulig, cantante già in Ida, diventa qui il personaggio principale, mentre Agata Kulesza – la zia Wanda – conserva comunque un ruolo importante, benché non centrale.
Non sembra tuttavia quella autoriale la maggiore preoccupazione del regista, che servendosi del montaggio ellittico frantuma la storia d’amore di Wiktor e Zula lungo un quindicennio tra l’Occidente e l’Est Europa, mentre mantiene l’attenzione puntata sullo spirito che cambia intorno ai suoi due innamorati i quali si amano e si lasciano, si impuntano e si riavvicinano fino al sacrificio della libertà, quando Wiktor ritorna in Polonia e finisce in prigione in quanto traditore del suo paese. I confini degli stati attraversati, della Storia, della Guerra Fredda, non si vedono perché passano all’interno della vicenda sentimentale, come se quella di Cold War fosse prima di tutto una sorta di allegorica e camaleontica biografia d’Europa per il mezzo di una coppia destinata sempre a riunificarsi pur restando lungamente divisa: per effetto di una affinità sentimentale che non ha un nome, e che nelle intenzioni dovrebbe superare le barriere, e che proprio come la musica sa varcare le epoche e i regimi. Al contrario di Ida e di Wanda, le quali apparivano scavate fuori dal ventre nero della storia polacca del dopoguerra, le figure di Zula e di Wiktor che si rincorrono per l’Europa – e il segmento francese è in questa logica il più rappresentativo e il meno problematico – sembrano uscire dal cilindro del cinema, parenti prossime di tante altre coppie di amanti senza un domani sicuro partorite nel corso dei decenni dalla settima arte. Il 4:3 è allora solo una delle scelte possibili a disposizione di una regia raffinatamente calibrata sulla scacchiera della rimembranza e finisce col perdere un po’ di ragion d’essere. Anche il gioco di opposizioni tra gli eroi di Cold War (traditore-spia, artista-cantante e ballerina “popolare”) è asciugato da un approccio che, per quanto o forse proprio perché così elegante, non nasconde velleità artatamente mainstream, sull’altare della coproduzione internazionale di qualità.
Nulla di male, basta capirlo, in fondo al di fuori degli integralismi critici La La Land (che è a suo modo molto diverso) e The Artist non erano niente di più e niente di meno.
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