Chiudere gli ultimi conti.
E il fattore umano, lo vogliamo considerare? La reazione di tanta parte della critica di fronte all’ultimo film di Clint Eastwood mi ha fatto pensare al più significativo scambio di battute di Sully (2016), tra il capitano Sullenberger e la commissione d’inchiesta.
Prendersela con Eastwood perché, a 91 anni, ha la “colpa” di dirigere e interpretare un film imperfetto, a tratti sgangherato, in fondo ambiguo, significa perdersi dietro a qualcosa di ideale, idealizzato e alla fine inesistente. Non è un mondo perfetto, ce lo aveva già detto Eastwood (“I don’t know nothing… not one damn thing”, ricordava il “suo” sceriffo Red Garnett nel film del 1993 che a tratti è adombrato in Cry Macho, e non solo per la storia). E non è un mondo perfetto perché imperfetti sono gli uomini e tutto ciò che fanno, creano, mettono in piedi, che sia morale o meno, anzi malgrado tutte le loro morali.
La critica si è scagliata contro l’ultima sequenza, quella in cui l’anziano Mike Milo torna tra le braccia della bella vedova messicana per ballare un lento dopo aver portato a termine il suo compito: che non è una missione, si badi, ma una sorta di restituzione di favore, forse persino una riparazione al vecchio datore di lavoro Howard Polk che, pur con tutti gli impacci e le recriminazioni del caso, lo aveva aiutato a restare a galla dopo la morte della moglie e del figlio e il successivo alcolismo. Forse sarebbe meglio soffermarsi sulla penultima però: quando appunto avviene la consegna del giovane Rafo al padre, al confine tra Messico e Stati Uniti. Ha il sapore di un passaggio di consegne, di un avvicendamento: ecco, pare dire il vecchio cowboy al ragazzo, ora vai da tuo padre, io ho esaurito il mio incarico ed è ora per me di ritornare ai miei sogni, senza rimpianto per ciò che non posso più essere. Clint Eastwood, nella sua messa in scena del romanzo di N. Richard Nash, sa benissimo di non avere più il physique du rôle e con questa consapevolezza gioca e ci fa giocare fin dalla prima apparizione di Mike, un po’ claudicante e ingobbito. Il vero film testamentario del regista non poteva forse essere un lavoro tanto “perfetto” (pur se costituito da molti momenti imperfetti) come Gran Torino. Eastwood è cioè tornato sopra quell’esito a suo modo definitivo per sporcarlo, per liberarsene e per andare per la sua strada, meno incisiva ma in qualche modo più reale: non a caso se nel film del 2008 Walt Kowalski faceva in qualche modo da padre ai ragazzini hmong, qui Mike Milo ha spesso un fare più imbarazzato, da zio contrariato potremmo dire, nei confronti di Rafo. È il ritratto di un uomo che di certo non può più fare il macho, atteggiamento che del resto ritiene superato: il ruolo nel film spetta semmai al gallo da combattimento di Rafo che sbroglia la situazione nel finale, mentre Mike al massimo può portare a termine un ultimo mandato e mettere al servizio degli altri i suoi doni (insegna a Rafo a cavalcare, aiuta gli abitanti del villaggio con i loro piccoli animali). Senza la pretesa di sapere se ciò che sta facendo è del tutto giusto o no (chi ha ragione nella contesa per Rafo tra un padre che pensa ai suoi interessi economici e una madre licenziosa e possessiva?). Ma del resto, sembra dire Eastwood, chi può saperlo?
Cry Macho potrà avere le sembianze di un’operina che poco aggiunge al cinema di uno dei più grandi cineasti contemporanei. Tuttavia in questo Eastwood senile, che viene meno al proposito di rinunciare a recitare (lo ha fatto già tre volte dopo Gran Torino: a parte il cameo non accreditato in American Sniper, è protagonista in questo film, in The Mule e in Di nuovo in gioco di Robert Lorenz) e si rimette in scena anche davanti alla macchina da presa, mi pare di vedere un uomo e un artista che ha scoperto di avere ancora qualcosa da aggiungere in quest’ultima fase della sua carriera e della sua parabola. Per chiudere gli ultimi conti e vivere gli ultimi sogni.
Sign In