Dovrebbe essere chiaro a tutti come i Marvel Studios, e la loro concezione di cinecomics, anzi ormai è meglio parlare di stile, siano diventati un vero e proprio marchio di fabbrica, una pietra angolare dell’intrattenimento con cui, volenti o nolenti specie dopo l’uragano Avengers: Infinity War, occorre confrontarsi a livello critico e metatestuale.
Allo stesso modo, dovrebbe essere noto come, pur sempre nell’alveo Marvel, tutto quanto riguardi i mutanti e l’universo (cartaceo e non) di riferimento sia appannaggio della Fox – per quanto ancora, dopo la recente acquisizione Disney che però si concluderà non prima dell’estate, non si sa. Con un conseguente e prevedibile cambio e adattamento di tono: se i film del MCU sono scanzonati pur con scivolate, nell’ultimo periodo, sul dramma, ma sempre con un approccio altamente mainstream, quelli della Fox hanno temi e tematiche più adulte, arrivando al Rated per il Logan di James Mangold, che è stato addirittura candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale e, appunto, al dittico su Deadpool.
Che è uno dei personaggi a fumetti più stratificati tra i millennial (anzi, è stato un antesignano, essendo stato creato da Rob Liefeld nel 1991 su un episodio dei New Mutants ma approfondito e, diciamolo, migliorato, da Joe Kelly prima e da Gerry Duggan poi: il suo status quasi pirandelliano lo rende consapevole di essere un prodotto dell’immaginazione, con tutto quello che narrativamente, psicologicamente e testualmente ne deriva. Affrontare un personaggio del genere non deve essere stata cosa facile (ed infatti, il progetto cinematografico su di lui è stato lungo e travagliato, ma sempre con capofila Ryan Reynolds, grande fan del character): ma il primo, firmato Tim Miller, fu un vero e proprio terremoto, risultando uno dei film vietati con l’incasso più alto di sempre, e faceva coincidere perfettamente le caratteristiche di Wade Wilson con i bisogni del grande schermo. Il secondo capitolo era atteso al varco per più di un motivo: e specialmente perché si prevedeva difficoltoso bissare il successo, di critica soprattutto, che aveva salutato l’uscita del predecessore, proprio perché si temeva una semplice riproposizione di ciò che aveva avuto successo.
Invece, Leitch vince e convince: Deadpool 2 non scimmiotta il film di Miller ma si ritaglia un suo posto, dando anzi un’identità cinematografica ancora più spiccata al suo protagonista. Perché conferma ed enfatizza quello che di Deadpool già si sapeva – cioè la scarsa morigeratezza nei costumi e nel linguaggio, gli spiccati riferimenti al sesso, la volgarità sbracata di alcune situazioni e, su tutto, lo sfondamento della quarta parete; ma in più riesce ancora meglio a sfruttare la metatestualità del materiale d’origine, restituendo per di più un film divertente e divertito, che inserisce Deadpool nell’universo mutante condiviso e non si limita ad una collezione di gag più o meno riuscite. A partire dal coprotagonista, che è un ragazzino sudamericano fortemente sovrappeso, cioè una vera minoranza mai rappresentata (e invece fortemente rappresentativa di buona parte della popolazione statunitense) inserita in un contesto narrativo con un background e con un motivo; e per finire a come viene detto ciò che è importante venga detto, ovvero riconoscendosi come semplice e al tempo stesso complesso prodotto commerciale interno ad un’industria di cui si ha e si esplicita un’opinione ben precisa e non proprio gradevole. Ed è proprio in questo scarto, in questo cortocircuito quasi subliminale, sottilissimo ma fondamentale, che Deadpool 2 acquista peso ed importanza: non perché parli del superamento del lutto, dell’amicizia, della necessità di trovare fiducia in sé stessi e cose simili, ma perché lancia stilettate precise all’industria dell’intrattenimento, riflettendo su Hollywood, sul suo sistema e sul sostrato social-culturale dal quale Hollywood viene fuori, mostrando quindi più verità sull’America di quanto potrebbe fare una semplice lezioncina morale. Si parlava prima di coerenza narrativa ai fumetti: sì, perché nel film non c’è un vero e proprio intreccio a legare la storia, ma l’inseguimento di una vendetta con tutte le sue declinazioni, con un ritmo ben preciso e martellante e un’affezione insolita per i personaggi. Che a tratti risultano irresistibili: se Reynolds è Deadpool, non si può non citare Peter, l’anello debole della X-Force (il team mutante strafamoso nei fumetti che vede qui la sua prima uscita su pellicola) introduttivo ad una debacle esilarante.
E strizzatine d’occhio e riferimenti al mondo Marvel e più in generale alla cultura pop (a partire dalla bella sigla a là Bond) a go-go.
Sign In