Il parossismo del cinema di Park Chan-wook.
L’undicesimo film da regista di Park Chan-wook sembra essere stato ben accolto un po’ ovunque. Dopo la deludente parentesi statunitense (Stoker), il suo nome è sinonimo di incassi sicuri in patria e consenso critico al di fuori. Da noi la sua notorietà è legata principalmente a Oldboy, il cult orientale per antonomasia del ventunesimo secolo, e si dubita che qualsiasi altro suo film possa ottenere la stessa notorietà, per una serie di motivi legati sicuramente all’abbandono di un immaginario così epidermico e di metafore di solitudine che possono parlare a qualsiasi tipo di pubblico. Un autore si evolve e Decision to leave dimostra come lo stesso regista di inizio secolo sia arrivato a un grado di stilizzazione ed astrazione inevitabile per chi ha dei temi ricorrenti, ma ne indaghi le possibilità per non girare sempre lo stesso film.
Park è sicuramente, a differenza di altri registi sudcoreani, il più interessato al confronto tra il suo paese e i media e le dinamiche esterne ad esso: prima di arrivare a riletture di romanzi europei calati nel contesto locale a lui consono (dalla Teresa Raquin di Thirst a un romanzo gallese in The Handmaiden), già Oldboy si poneva come esperimento panasiatico avendo la propria fonte in un manga giapponese. E ciò che lo spettatore italiano potrebbe perdere nel doppiaggio (1) di Decision to leave è proprio l’interazione tra una femme fatale cinese, interpretata dall’esportabile Tang Wei, e tutti i disturbi linguistici che questo può portare all’interno di una piccola cittadina come Ipo. Questo è in linea con una delle chiavi di lettura del film, il linguaggio e la difficoltà della sua comunicabilità nell’epoca del virtuale. Come nota Tony Rains su Sight & Sound “La tecnologia moderna è difatti impiegata per tutto il film, perlopiù uno smart-watch che registra note vocali e una app per cellulare che traduce dal cinese al coreano, ma raramente chiarificano alcunché.” (2) Una costante di tutte le recensioni è quella di sottolineare la compiutezza visiva, ma Park elabora continuamente strategie stilistiche (dal montaggio a soggettive insolite) per dare una spazialità al virtuale. Se dai tempi di Lady Vendetta eravamo stati abituati a dissolvenze con effetto straniante o al sabotaggio del punto di vista, qui essi aiutano a rappresentare la dimensione mentale di due (o più) soggetti comunicanti con la consapevolezza che possono essere fisicamente vicini solo all’interno dell’immagine cinematografica: da ciò la duplice funzione di farci intuire come sarebbe se condividessero davvero lo stesso spazio e come la pervasività della tecnologia abbia annullato sempre di più le coordinate spaziali nelle interazioni umane.
Se da un lato Park è giunto a un forte punto di stilizzazione nel mettere in scena omicidi che sono decisamente meno cruenti rispetto al passato, dall’altro esautora tutte le possibilità del plot giungendo al parossismo: vengono esaminate tutte le piste narrative chiudendo e riaprendo un cerchio sorretto da una storia d’amore ostacolata in continuazione da vendette e atti mancati (ad esempio, se il protagonista divorziasse appena conosciuta Tang Wei, il film durerebbe la metà e suspense e colpi di scena si ridurrebbero). Ciò dipende sicuramente dalla volontà di non raccontare l’ennesima storia di cui l’audiovisivo sudcoreano è pieno, ma anche di segnare probabilmente il punto definitivo su questo genere di narrazioni essendo consapevole della propria maturità autoriale. Decision to leave come tutto il cinema di Park è un whydunit piuttosto che un whodunit, che a noi occidentali dimostra che Park ha appreso e fatto propri gli stilemi hitchcockiani: in Corea peraltro l’influenza dell’autore inglese è costante sin dagli anni ’60. Ma la complessità parossistica del plot e dello stile impongono più di una visione per avere chiara l’architettura e goderne appieno. Il rammarico è che un film di un genere così popolare come il thriller, almeno qui da noi, finisca nelle sale d’essai e non spopoli nei multiplex.
(1) Qualcosa di analogo succedeva nel Premio Oscar Drive My Car, in cui si alternavano giapponese e cinese: questo per segnalare che è una tendenza di tutto il cinema contemporaneo dell’estremo Oriente.
(2) https://www.bfi.org.uk/sight-and-sound/reviews/decision-leave-danger-keeps-spiralling-this-tense-tale-obsession
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