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Il Diabolik naif e rétro dei Manetti Bros.

Clerville, fine anni ‘60. In città è appena arrivata una giovane ereditiera, Eva Kant, con un diamante rosa raro e prezioso. Diabolik, un ladro abile e spregiudicato braccato dalla polizia e dall’ispettore Ginko, ha già deciso quale sarà il suo prossimo colpo. L’incontro con Eva è destinato a stravolgere la sua vita.

Ha un fascino rétro il Diabolik dei Manetti Bros, non solo perché è ispirato ai primi numeri del fumetto creato e ideato dalle sorelle Giussani (per l’esattezza al terzo albo della prima serie L’arresto di Diabolik uscito nel marzo del 1963), ma anche per la volontà di guardare e di rifarsi agli sceneggiati televisivi del passato, prodotti tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60, o a film coevi come Caccia al ladro di Alfred Hitchcock. Proprio per questi motivi i Manetti finiscono per confezionare un film lontanissimo dai ritmi e dalle atmosfere del cinema contemporaneo, estraneo alle logiche produttive e alle mode dettate dai blockbusters e dai cinecomics americani. Marco e Antonio Manetti, coadiuvati dallo sceneggiatore Michelangelo La Neve con cui avevano già collaborato per Song ‘e Napule e Ammore e malavita, coronano il sogno di una vita, quello di riportare sul grande schermo il personaggio iconico del ladro letale e inafferrabile dopo la prima trasposizione in chiave ultra pop realizzata da Mario Bava nel 1968, infedele allo spirito del fumetto ma divenuta negli anni un’opera di culto a livello internazionale. Forse, in questo progetto così sentito a cui dovrebbero seguire altri due capitoli, manca un guizzo, una scintilla che lo faccia brillare di luce propria a causa del tanto amore dei Manetti nei confronti del fumetto di partenza che probabilmente li ha un po’ bloccati. L’intento di restare ancorati e il più possibile fedeli allo spirito del Diabolik delle sorelle Giussani ha inibito lo slancio e frenato l’entusiasmo che i due autori e registi romani riversano solitamente nei loro progetti. Ne è venuto fuori un film che come detto in precedenza guarda sì al passato, incurante delle mode odierne, ma sostanzialmente rimane un po’ ingessato nel suo voler portare a casa il risultato, non sfruttando a dovere le ambientazioni noir e i possibili risvolti mélo della trama. Si ha come l’impressione che il Diabolik dei Manetti non riesca a scrollarsi di dosso un’ansia da prestazione che aleggia e si respira dall’inizio alla fine. Un maggior coraggio e una sana voglia di osare e di stupire avrebbero giovato all’operazione, magari col rischio di farla sbandare o deragliare ma l’avrebbero resa meno anonima, più autentica e personale. Giunti ai titoli di coda si rimane con la sensazione abbastanza straniante di aver assistito a un compitino preciso e pulito che purtroppo non riesce a entusiasmare e a coinvolgere, né tantomeno a destare meraviglia. Nei suoi tempi dilatati e rarefatti, talvolta catatonici come la recitazione di un controllatissimo Luca Marinelli nei panni – o meglio nel costume – di Diabolik, il film non riesce quasi mai ad appassionare e a suscitare un reale interesse nel pubblico, sebbene la parte finale sia più movimentata e “fumettosa”, con un uso abbondante e copioso di split screen in cui emergono timidamente lo stile e l’estetica degli autori di Coliandro. Resta comunque un lavoro accurato, onesto e dignitoso a cui è difficile volere male per il suo spirito naif e fuori dal tempo, che ha dalla sua ambientazioni ricercate e suggestive, con gli scorci e gli scenari triestini a farla da padrone. Bisogna dire che l’attesa per l’uscita di Diabolik, come per Freaks Out di Gabriele Mainetti, è stata lunga e sfiancante a causa dell’uscita slittata in avanti di un anno, una scelta resa quasi obbligata e inevitabile per la seconda chiusura dei cinema nell’autunno del 2020. La curiosità intorno a questo progetto era tanta, proprio perché incentrato su uno dei personaggi più celebri e importanti del fumetto italiano che nel 2022 festeggerà i sessant’anni dalla sua nascita e che nel corso del tempo ha avuto più di un tentativo di adattamento fallito, a partire dal progetto del 1965 di Seth Holt bloccato a inizio riprese dal produttore Dino De Laurentiis perché insoddisfatto dai giornalieri, fino alla serie TV che avrebbe dovuto realizzare Sky in tempi recenti. Alla luce di questi travagli produttivi c’è da essere comunque contenti che il progetto dei Manetti Bros finanziato da Rai Cinema sia andato a buon fine. Adesso resta da verificare come verrà recepito e accolto dal pubblico, soprattutto alla luce dei due sequel già messi in cantiere. Un’operazione piuttosto rischiosa, certamente non priva di coraggio, che avrebbe bisogno di un buon esito commerciale di questo primo capitolo per poter proseguire e guardare avanti in modo sereno e senza assilli e affanni produttivi.

voto_3

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.