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DICK TRACY

DICK TRACY

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Un tentativo sincero e pionieristico di portare i fumetti al cinema.

Dite quel che volete di Warren Beatty, non sarà mai stato un vero Autore, ma al cinema, come nella vita, ha sempre fatto quel che ha voluto, senza mai piegarsi al volere di uno studio o alle tendenze del momento. Certo, incappando in diversi insuccessi commerciali e pellicole malriuscite, ma uscendone costantemente a testa alta, senza rimpianti. Un vero divo, con tutti i suoi pregi e difetti, come oggi non ce ne sono più.

Accarezzato da Hollywood per oltre vent’anni, il progetto di realizzare una pellicola su Dick Tracy, celeberrimo detective protagonista dei fumetti noir di Chester Gould, si concretizza solo quando Beatty propone l’idea alla Disney. La produzione non è facile, i registi che rifiutano il lavoro non si contano (tra gli altri Tim Burton, Martin Scorsese e Walter Hill, che abbandona per divergenze con il produttore Beatty), così come gli attori che passano la mano sul ruolo da protagonista (De Niro, Nicholson, Redford…), finché Beatty non risolve il problema alla radice proponendosi in veste sia di regista che di attore. Da qui la strada sembrerebbe in discesa, ma le cose vanno in maniera diversa: tra star che abbandonano la produzione (Sean Young, che accusa Beatty di volerla obbligare ad andare a letto con lui) e rallentamenti produttivi dovuti alle richieste del regista (fotografia, scenografie e make-up sono curati a livelli maniacali), il budget inizialmente stimato raddoppia, al punto che il film, per quanto remunerativo al botteghino americano (103 milioni di dollari, nono incasso dell’anno) riesce a malapena a coprire i costi di produzione, facendo mettere in naftalina il progetto iniziale di realizzare almeno un sequel della pellicola.

Questioni commerciali a parte, Dick Tracy è quello che si definisce un ufo nel panorama cinematografico americano dei tempi, e ancora oggi è un oggetto difficilmente classificabile. Per questo suscita, perlomeno, un pizzico di simpatia e curiosità. Se la sceneggiatura del duo Jim Cash/Jack Epps Jr. (autori di Top Gun e Anaconda, tra le altre cose) sta scritta su un fazzoletto, la sfida del film di Beatty si gioca tutta sul piano visivo. L’impresa del regista è riuscire a realizzare un film che assomigli in tutto e per tutto alle strisce di Chester Gould, mantenendone lo stesso imprinting espressivo ed estetico. Vittorio Storaro fa un vero e proprio miracolo, illuminando e riempiendo il film con i soli sei colori che apparivano nel fumetto (rosso, blu, giallo, arancione, viola e verde, oltre al bianco e nero), mentre il truccatore John Caglione Jr. plasma il volto dei divi rendendolo identico alle maschere grottesche ed esagerate ideate da Gould oltre cinquant’anni prima. Sedute di make-up pesantissime ed estenuanti che trasfigurano i tratti somatici degli attori (tra i vari Al Pacino, Dustin Hoffman, Paul Sorvino, James Caan, William Forsythe) rendendoli villain irriconoscibili e mostruosi che paiono avere più in comune con la nuova carne di Brian Yuzna e Stuart Gordon che con il mondo dei fumetti. Inseguendo la chimera della totale sinergia tra celluloide e fumetto, Beatty anticipa, e di parecchio, gli esperimenti visivi azzardati con l’aiuto (non indifferente) della tecnologia digitale da Frank Miller e Rodriguez in Sin City, o da Zack Snyder in 300 e Watchmen. Certo, questi film godono di un riconoscimento critico e di un apprezzamento da parte dei fan di cui Beatty non ha potuto giovare, ma questo perché il suo film ha una maschera da film “per famiglie”, è una sciocchezzuola che mescola elementi da commedia rosa con altri da musical, mentre Miller-Snyder optano per uno spettacolo cupo, serioso e violento, che intercetta maggiormente lo spirito dei tempi.

Se proprio si deve trovare un antecedente alla colorata stravaganza firmata da Beatty dobbiamo tornare indietro al 1968, al Diabolik di Mario Bava, un altro film che, consciamente, fa della narrazione il grado zero della materia filmica, e il cui interesse è interamente volto a ricreare visivamente le suggestioni del fumetto di Angela e Luciana Giussani, così come dello spirito dell’epoca, la psichedelia, la pop-art, la liberazione sessuale. Ma a conti fatti Dick Tracy resta un film che non ha precedenti nella storia del cinema, un tentativo acerbo e non privo di difetti, ma più significativamente sincero e pionieristico di trovare una via per portare i fumetti sul grande schermo, prima che all’inizio degli anni 2000 Raimi, Singer, Nolan dettassero le regole “base” su come affrontare la questione comics al cinema. Nel lussuoso comparto tecnico della pellicola di Warren Beatty meritano una citazione le melodrammatiche musiche dell’ancora giovanissimo Danny Elfman (reduce dal successo di Batman di Burton, e si sente), e le canzoni scritte nientemeno che da Stephen Sondheim, che riescono a far portare a casa l’Oscar a Madonna (all’epoca fidanzata di Beatty e nel film interprete della femme fatale Mozzafiato Mahoney) per il brano Sooner or Later (I Always Get My Man).

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Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".