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DIVENTARE IMMORTALE E POI MORIRE: JLG (1930-2022)

DIVENTARE IMMORTALE E POI MORIRE: JLG (1930-2022)

JLG foto2

In memoria di Godard.

Ho iniziato ad amare il cinema dopo aver visto Il maschio e la femmina (1966), perché lo aveva elogiato Lee Ranaldo dei Sonic Youth. La scoperta che l’intreccio non contava nulla e il vero motivo di interesse erano le riflessioni e i pensieri dei personaggi sull’attualità, la politica e le ragazze, girando con un’urgenza e una pochezza di mezzi rara nei film che ci passa il convento, rappresentò un punto di non ritorno. Qualche anno dopo, la visione (forzata) di Passion (1982), fu invece un tradimento totale. Com’era possibile che lo stesso regista fosse l’autore di un film così confuso, urlato, senza ispirazione e pieno solamente di belle immagini? Per anni anch’io, come del resto molti appassionati che seguono solo l’attualità o il mainstream, l’ho archiviato come un importante pezzo di modernariato: un rivoluzionario negli anni Sessanta che si è poi barcamenato in opere sempre più ermetiche. Pensando di approfondirle presagivo la totale assenza di piacere della visione. Solo negli ultimi anni mi ci sono riavvicinato, quasi come nella chiusura di un cerchio, un ritorno al padre che per anni avevo contestato, scoprendo quanto ancora oggi certe opinioni su Godard siano approssimative e poco approfondite. Per dire perché penso sia il più grande regista di sempre probabilmente non basterebbe un libro. Piuttosto il caso di Godard segnala i limiti della cinefilia odierna. Il rischio che noto, specie sui social, è di ridurre un artista così complesso a un pezzo di modernariato Sixties. La scritta “Fin de cinema” in Weekend (1967) è anche l’opinione di molti applicata alla sua filmografia.

Da noi, complice la saltuaria e sporadica distribuzione dei suoi film dagli anni Ottanta in poi (ma anche prima, a giudicare dagli incassi, erano spettacoli per élites), sappiamo che Godard continuava a sperimentare, e il fatto di aver perso la visione in diretta di questo discorso mai interrottosi fa sì che si veda il dettaglio isolato dalla visione d’insieme. Va poi aggiunto che verso chi applica rivoluzioni radicali all’interno di una forma d’arte lo scetticismo è quasi d’obbligo. Da Goffredo Fofi e dal gruppo di Cinema Nuovo che l’ha sempre etichettato come un falso profeta fino a Tullio Kezich che negli anni Ottanta trattava qualsiasi suo film come aria fritta che faceva rimpiangere la (presunta) felicità delle sue opere di vent’anni prima. Negli Stati Uniti il discorso non cambia: dal compianto Roger Ebert, che ha sempre assegnato 1 stella ai suoi ultimi film fino al librone scritto da Richard Brody in cui spesso le informazioni vengono distorte pur di avvalorare la tesi di un Godard antisemita e misogino (leggere l’analisi del finale di Vivre sa vie per credere). Quanto alla critica inglese, Mark Kermode meriterebbe di cambiare mestiere o quantomeno dovrebbe chiedere scusa per la squallida stroncatura di Film Socialisme (reperibile su Youtube). Non che la figura di Godard non sia piena di contraddizioni (il rapporto con Truffaut o la Varda, certe affermazioni nel periodo Dziga Vertov), o che i suoi film non siano stroncabili: ma, tranne quando davvero inevitabile, credo sia alla base dello studio di qualsiasi grande artista che ogni gesto vada contestualizzato, per verificare in futuro come egli ci si sia rapportato, o quanto ciò influenzi la sua intera opera.

Il modo in cui certe affermazioni di Godard vengono decontestualizzate, ad esempio: nessuno si è mai chiesto perché chi faceva negli anni Cinquanta dichiarazioni così assolutiste nei confronti del grande schermo dagli anni Ottanta si sia dedicato con tanta pervicacia al video o al web. C’è chi ha visto nella sua opera un costante requiem nei confronti del cinema, ed è giusto. Ma bisogna anche tenere in conto che Godard si riferisce al cinema come lo conosciamo. Esso rinascerà sotto altra forma, come la pittura. Ingannati dall’urgenza estetica di film immortali come Bande à part (1964) o Vivre sa vie (1963), si dimentica che Godard è sempre stato aperto alle nuove tecnologie: il video fa la sua prima comparsa nello sciagurato Vladimir e Rosa (1971!) e le sperimentazioni col 3D in Addio al linguaggio (2014). La sfiducia, quindi, nel cinema come narrazione su grande schermo è sia per essere al passo con i tempi, sia perché (ed è la tesi di fondo delle Histoires) il cinema non ha saputo narrare il più grande orrore del ventesimo secolo: l’Olocausto.

Per qualsiasi spettatore che almeno una volta si sia chiesto il perché di un’inquadratura, quale senso assuma un controcampo all’interno di una sequenza, o perché mostrare un’immagine proprio in quel modo e con quei mezzi, penso che la filmografia di Godard sia lì a risponderci. Non un singolo film, ma tutte le opere. Anche le più ostiche. Perché la lezione che ha imparato da Hitchcock, a suo dire il più grande inventore di forme del secondo dopoguerra, è proprio la costante ricerca non di cosa dire, ma di come dirlo. In ogni film l’uso del mezzo segna una riscoperta al grado zero. Film Socialisme e Le livre d’image (2017), col loro alternare glitch, saturazione, estratti da film hollywoodiani, immagini da smartphone, il tutto giustapposto con l’audio asincrono, non sono delirio intellettuale, bensì il segno della direzione in cui il cinema andrà, seguendo il modo babelico in cui usufruiamo di immagini e info. Qualcosa di analogo l’avranno provato gli spettatori che a metà anni Settanta videro una storia narrata attraverso schermi televisivi filmati in 35mm nel fondamentale Numéro Deux. Per questo motivo, chi accusa Godard di essere datato (come ha fatto di recente Antonio Monda, credendo di fargli un torto) in realtà dice il vero. Aveva ragione (sempre con altre intenzioni) anche Concita De Gregorio quando, vedendo Adieu au langage, scriveva che sembra “la sperimentazione di un adolescente in garage”, proprio per l’irresponsabilità da parte di un uomo che ha passato gli 80 anni e continua ad inventare attraverso il montaggio (non aveva ragione su tutto il resto, per la cronaca). Pochi registi mi hanno messo davanti agli occhi il futuro del cinema vivendo ancora nel presente.

Radicato nella contemporaneità è anche il suo uso dei testi, e ci si limita ad alcuni esempi per evitare di parlare di ogni film. La gaia scienza (1968) tentava di spiegare per immagini le teorie di Derrida esposte in Della Grammatologia; e la stessa cosa Godard farà nell’ostico e pedante Lotte in Italia (1970) con Althusser. Oppure criticando il (proprio) passato prossimo nel segno del fallimento in Ici et ailleurs (1975) per poi arrivare al solo testo, astraendosi dalla contemporaneità, nello straordinario Nouvelle Vague (1990) in cui ogni battuta è citazione, o tornando di nuovo al presente della questione mediorientale in Le livre d’image (grazie al quale un romanzo di Albert Cossery giace nella mia libreria attendendo di essere letto). Per chi scrive, Eloge de l’amour (2001) e Notre Musique (2004) sono probabilmente due dei film più belli di sempre e meriterebbero un articolo a parte per il lavoro sull’immagine e per come intrecciano i temi costanti di Godard (l’antinomia tra amore e lavoro, l’identità e la politica). Pur nel loro non essere privi di difetti (ancora non so giudicare la parte che riguarda il Paradiso nel secondo film citato, e ho ancora dei problemi con Weekend e For Ever Mozart [1995]. E dinanzi a un artista simile è giusto che sia così).

Assieme a Manoel De Oliveira, Godard sembrava entrato nel regno dei registi immortali. Anche se faceva spavento sentirlo parlare online a 90 anni con un’università del Kerala (India), Godard ci dava la (falsa?) speranza che non avesse perso il dinamismo che insieme alla prolificità lo ha sempre contraddistinto fin dal suo esordio nel cinema. Due film erano in preparazione (Scenario e Funny Wars) con tanto di intervista al suo operatore di fiducia sui vari formati da utilizzare. Si vociferava anche di un adattamento della Bérénice di Racine: una copia del libro compare in Una donna sposata (1964), perché è da allora che JLG covava il sogno di portarla sul grande schermo. Per questi motivi la sua morte, nonostante l’età, ci colpisce come del tutto inaspettata ed è giusto che sui social tutti lo stiano omaggiando (e dissacrando) con l’immagine (e solo l’immagine) a cui è più legato. La mia speranza è che (grazie al web) la sua morte spinga i cinefili ad approfondirlo e non solo a riguardare per la decima volta Il disprezzo (1963), sebbene sia bellissimo. Per capire che Godard è un artista alla pari di Balzac e Proust, Picasso e Matisse. Solo così potrà diventare immortale nella nostra memoria e, a poco a poco, morire.

Weekend Godard

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.