Il ritorno di Luc Besson ai temi più cari.
Il cinema di Luc Besson è un luogo – concettuale – bizzarro e impervio pur nel suo innegabile fascino: probabilmente perché è sostanzialmente frutto di una contaminazione all’inizio originale, quella tra il cinema d’azione europeo e un immaginario statunitense popolato da machismo e humor spicciolo.
Unione che ha dato vita ad una generazione di eroine vendicative e violentissime che trasformano le ferite dell’anima in furore vendicativo: e che si nutrono di solitudine, emarginazione, rabbia e bisogno d’amore, mentre il melò intride ogni traccia del racconto, indagando le maniere in cui veniamo influenzati e cambiati dal Male che ci investe.
Dogman è allora il ritorno del regista ai suoi temi più cari: un film che controbilancia in maniera perfettamente equilibrata dolore e leggerezza, concentrandosi sulla storia di un uomo distrutto dalla vita senza indugiare sul patetismo. Neanche la violenza, da sempre in Besson insistita fino a diventare parossistica, prende più spazio di quanto gliene debba essere concesso: Dogman vive in funzione del suo personaggio principale, il Douglas che ha i toni incredibili di Caleb Landry Jones, e parte da quella frase di Alphonse de Lamartine posizionata sui titoli di testa “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane” per raccontare tutto il dolore del mondo attraverso i randagi (umani e cani) metafora di ultimi, di dimenticati.
Sembra uscito da un fumetto, Dogman, per la sua attitudine di vivere e raccontare attraverso i colori e i segni della messa in scena: sequenze talmente forti e di una fisicità così esibita da trasmettere quasi le onomatopee dei suoni, dei colpi di fucile, del sangue che schizza. In questo modo, Besson sembra fregarsene di ogni incongruenza narrativa e si sposta un po’ più in là, in quello spazio dove tutto è concesso grazie alla sospensione di incredulità, ma soprattutto grazie alla (pre)potenza delle emozioni. Che poi, lo stesso Doug è un vero e proprio supereroe: incompiuto quanto grezzo, ma proprio per questo genuino e convincente, emotivamente prorompente, eppure lucido nella sua presa di posizione sociale.
Perché Dogman è questo che fa, nel suo nucleo emotivo più intimo ed interno: partendo da una notizia di cronaca vera (un ragazzino di 5 anni rinchiuso dai genitori in una gabbia con i cani), immagina il futuro del ragazzo immaginandone anche la visione del mondo contro le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze.
Ecco allora che Besson crea le coordinate di una favola (nera, nerissima) sugli emarginati che diventa nello stesso tempo cinema di formazione, cinema pop e cinema di sentimenti, generi che si fondono insieme per un mosaico postmoderno con un occhio agli anni Novanta – è pur sempre il Besson di Nikita - e un altro attento a restituire odori, colori, suggestioni.
Tra enfasi (in)giustificate e strabordamenti emotivi, il diciannovesimo film dell’autore francese è una storia (a tratti kitsch, ma mai fuori posto) di amore, salvezza e dedizione che pulsa di melodramma e follia e coraggio: il coraggio che serve per alzarsi pochi istanti dal dolore di una sedia a rotelle per mostrarsi forte di fronte ad un mondo che non ci vuole, salvo poi ripiombare giù, non appena si chiude il sipario, cantando Lili Marlene.
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