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Dogman foto1

Un autore che rimane coerente con il suo cinema.

Non ci interessa, ai fini di questa recensione, stabilire quanto Dogman sia attinente alla vera storia del Canaro e quanto ci sia di finzione: non è la prima volta che Garrone parte da un evento di cronaca come base di un suo film. Lo fa sempre creando (secondo l’accezione teorizzata da Edoardo Bruno) un mondo surreale, perché oggettivizza la storia di partenza e inserisce all’interno della finzione dati minuziosamente reali.

Cominciamo dal regista: si può parlare di una coerenza tematica nell’opera di Garrone? Pensateci, cos’altro sono i suoi film (da L’imbalsamatore in poi) se non una serie di varianti sulla stupidità, le vacuità passionali e istintuali degli uomini? A trionfare spesso sono la sensibilità e l’intelligenza femminili contro un mondo dominato da maschi ossessionati solo da bisogni primari, feticistici o irraggiungibili. Il primo scarto rispetto al passato è la mancanza di una figura femminile forte, essendo Dogman ambientato in una società minuscola in cui sembrano esistere solo gli uomini. Col suo volto dai tratti irregolari, la strana parlata marcata dal dialetto, il protagonista Marcello (Marcello Fonte) porta un altro elemento di novità: è profondamente ingenuo, di cuore puro, e a differenza del Luciano di Reality, non è ancora vittima dell’edonismo dell’era televisiva. Tratti che risultano consonanti con le immagini, filmate nei luoghi di L’imbalsamatore, a Castel Volturno (1), luogo in cui Garrone, affascinato dall’architettura sghemba che permea l’epicentro della narrazione, costruisce gli spazi concentricamente attorno al canile del protagonista, dando l’impressione di un mondo chiuso e fuori dal tempo e dalla Storia (2).

Marcello non distingue il bene dal male, conosce solo l’arte di sopravvivere e, come in un film di Sergio Citti (3), pur vivendo in una realtà periferica non conosce la brutalità degli adulti, dato che la sua ingenuità sembra catapultarlo in un mondo personale semi-fiabesco, popolato dall’amore per i cani e la figlioletta. La presenza dei cani nel film introduce un dettaglio di realismo estremo (4), assieme alle riprese subacquee: elementi (l’allevamento degli animali e le escursioni in mare) che sembrano avere per Marcello una funzione di evasione dalla brutalità della microsocietà che lo circonda; il secondo funge anche da dettaglio poetico (ma non estetizzante) tra le immagini.

Dogman potrebbe essere diviso in due parti con la lunga ellissi tra prima e dopo il carcere. Si ricordi che Garrone è un autore in senso totale (regista, sceneggiatore, macchinista) e il découpage del film è indicativo di una coscienza registica notevole: si faccia caso, per stimare il suo rigore, nella prima parte del film, alla scena ambientata in una discoteca di quart’ordine (che con quei rossi sullo sfondo introduce un tono di apertura/chiusura all’interno delle immagini): un Sorrentino non avrebbe risparmiato preziosismi e inquadrature estetizzanti, per esempio sui corpi delle lap dancers, approfittando dei neon. Garrone, che ama i suoi personaggi e sa che ogni movimento della mdp deve avere una correlazione con quanto viene narrato, risolve l’intera sequenza stringendo intorno ai volti, perché l’introduzione di un luogo nuovo nella narrazione, in un film così fisso in pochi ambienti, rappresenta l’ennesima tappa nello sviluppo del protagonista (che prova la cocaina, forse per la prima volta nella sua vita). La seconda parte, invece, vede una cinepresa più mobile, privilegia la famigerata macchina a mano che diventa tutt’uno col protagonista, pedinandolo continuamente. Garantisce anche un effetto di suspense, dato che l’atto di vedere passa sempre attraverso Marcello, che è il protagonista di tutte le inquadrature: sia perché per Garrone è un personaggio affascinante, che ragiona con schemi mentali suoi, imprevedibili e a noi ignoti, sia perché non sappiamo come, dopo il carcere e per certi suoi gesti, reagiscono gli altri personaggi della storia.

Un altro elemento ricorrente nella filmografia di questo autore sono i rapporti duali all’insegna della dominazione, ma qui le dialettiche vengono rovesciate e assumono significati altri: vendetta involontaria e voglia di accettazione (quest’ultima, attraverso l’anoressia, era il punto di partenza dell’intreccio di Primo amore). A leggere lo sviluppo della vicenda sembra un banale film di vendetta, invece il suo autore adotta un registro totalmente diverso: la vendetta viene compiuta quasi inconsapevolmente, non come riscatto personale ma per il desiderio di tornare ad esser parte di una società che ha escluso il protagonista. Quella società che è incapace di prendere decisioni, impossibilitata a svilupparsi perché atrofizzata moralmente e culturalmente e che, qui sta l’assurdità del film, solo l’emarginato, lo scemo del villaggio riuscirà a portare ad una svolta. E il fatto che stiamo continuamente dalla sua parte conferma il sadismo di Garrone nei confronti dello spettatore, nonché l’originalità di un film che non segue facili soluzioni ma sigilla, con un primo piano (nella sequenza finale) che poteva durare anche in eterno, così bello nel suo sembrare improvvisato e con quelle sublimi aperture dell’immagine ai lati del quadro, il film di un autore sempre imprevedibile e allo stesso tempo fedele al proprio stile e, proprio per questo, fondamentale nell’attuale panorama del cinema italiano.

(1) Località prescelta anche da Edoardo De Angelis, autore per molti versi simile a Garrone, sia per il sottovalutato Indivisibili che per il suo film di prossima uscita (Il vizio della speranza).

(2) In un’inquadratura compare un computer portatile. Se si eccettua questo dettaglio, il film ha un’ambientazione atemporale.

(3) SPOILER. Oltre agli elementi elencati, il finale di Dogman richiama per molti versi quello del capolavoro Ostia (1970): in entrambi il rapporto duale si risolve con un omicidio e ricorre il luogo della spiaggia, doppiamente fuori dal tempo e dalla Storia.

(4) Sopratutto se paragonato alla (brutta) CGI di Loro 1.

voto_5

 

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.