Dolore e cura.
Come far combaciare un’idea di cinema scatenata e trasgressiva, traboccante di luci e colori che riflettono le emozioni più eccessive eppure vive e vivide, con un tono filosofico ed un rigore etico assoluto, emotivamente altissimo? La soluzione probabilmente ce l’ha solo Pedro Almodovar, che con il suo Dolor Y Gloria presentato sulla Croisette poco prima dello sbarco in sala non solo firma la sua 21^ regia senza nessun segno di cedimento, ma anche e soprattutto porta a casa uno dei risultati artistici più alti, compiuti, esaltanti e perfetti della sua intera carriera. I paragoni interni al suo mondo cinefilo si sono sprecati (da Todo Sobre My Madre, pietra angolare della sua filmografia, a Volver a Los Abrazos Rotos), eppure Dolor Y Gloria sembra avere un po’ di tutti ma tanto di nessuno, talmente è compatto, coerente e senza slabbrature dall’inizio alla fine. Forse, in comune con quelli, ha quella sua ricerca affannosa di far coincidere l’idea di vita del regista con un autobiografismo disperato e romanzato che sfuma continuamente i contorni di realtà e finzione; ma sta di fatto che l’ultimo, ad oggi, film dell’ex enfant terrible iberico è uno di quei film allo stesso tempo tremendamente personali ma anche incredibilmente universali, proprio per quella ricerca spregiudicata che Pedro opera sommessamente sulla grammatica del suo cinema, uno sperimentalismo che di folle e trasgressivo ha solo la forma, mentre conserva un rigore teoretico profondo, assoluto, classicissimo. Almodovar gioca con i sentimenti, li accarezza, li distrugge e li mette in scena a seconda dell’uso che nelle sue storie deve farne; Dolor Y Gloria è in fondo forse la sua storia più personale, quella di un ex regista che – affaticato da numerosi disturbi fisici, sfiancato dalla dipendenza tossicologica, appannato e immalinconito da una solitudine amorosa che lo porta a vivere in una casa-museo dialogando solo con i suoi quadri – non riesce, perché non ne ha il coraggio né la forza d’animo, a tornare a girare, a creare. “Se venisse male, ne sarei devastato; ma se venisse bene, ne sarei ugualmente ucciso”, dice del suo monologo che vuole mandare in scena senza il suo nome, e non vuole neanche vedere o dirigere nell’ombra. Salvador (Antonio Banderas, meraviglioso, straziato alter ego di Pedro) va avanti per inerzia, e mette a confronto le dipendenze della sua vita scegliendo alla fine quella meno letale: la droga o il cinema, l’arte della menzogna o la tossicità della fuga verso altri mondi, sono diverse le dipendenze in cui il protagonista si dibatte. Ma nonostante questo sottotesto, Dolor Y Gloria suona come un film pacificato: un’elegia tragica su una vita trascorsa e irrimediabilmente ormai alle spalle, sacrificata per il cinema, ma alla fine con la consapevolezza, acquisita non senza dolore, che senza il cinema non avrebbe avuto senso, colore, sapore.
Cinema insomma come dolore e cura: tutto insieme nel delicato affresco che ha questa vitalità anche per l’incredibile prova di Banderas, che all’ottavo film con il suo regista di riferimento riesce alla fine a fondersi totalmente con lui: ogni ruga che Banderas mette a nudo è un pezzo di racconto, quel racconto sempre sul filo dell’emozione che Almodovar fonda sui suoi stili e stilemi. Un passato ingombrante con grandi dolori che hanno dato una svolta inaspettata alla vita; incredibili coincidenze, legami affettivi più forti di quelli di sangue; e ancora famiglia, amore e passioni che non sanno restare sopite nella memoria, ma accendono la mente e il ricordo, colorando una vita che va lentamente spegnendosi.
Ricordo e dolore sono i fili che si intrecciano nel film, prosciugato dalla tristezza liquida del pianto, ma come acceso da un dolore pronto ad assalirti al cuore dietro l’angolo; un film che racconta, senza pudicizie, la creazione artistica e la difficoltà di separarla dalla vita, l’incredibile sfumatura che sembra confondere fiction e non fiction, mentre una si nutre dell’altra e viceversa, in un’osmosi che alla fine non può che lasciare sfiancati.
Passato, presente, futuro, ricordi, set, realtà, attori, personaggi: senza soluzione di continuità sfilano uno dietro l’altro, come nell’ultima splendida sequenza che chiude e impregna di significato tutto il film. E l’unica maniera che ha lo spettatore di poter distinguere è la sua logica o, meglio, la scelta emozionale con cui inserire i vari tasselli per ricomporre la vita di un uomo che ha vissuto il cinema come fosse la sua vita, e la sua vita come fosse cinema. Perché in fondo, la differenza, forse davvero sta solo negli occhi di chi guarda.
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