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L’operetta morale grottesca e autoriferita di Adam McKay.

La premessa di Don’t Look Up è molto semplice: durante una sessione di osservazione dell’esplosione delle stelle, una dottoranda di Astronomia all’università del Michigan, Kate Dibiasky, scopre una cometa. Dopo un primo momento di euforia condiviso con il suo professore, il dottor Randall Mindy, e i suoi colleghi dottorandi, arriva la rivelazione sconcertante: dopo averne calcolato l’orbita, i due scienziati scoprono che la cometa, di considerevoli dimensioni (è grande quanto l’Everest) è in rotta di collisione con la Terra. Le conseguenze dell’impatto saranno irreversibili, la razza umana, tutte le specie viventi saranno spazzate via. I due si rivolgono immediatamente alle autorità e vengono mandati direttamente nella stanza Ovale, dove vengono accolti dalla Presidente degli Stati Uniti. Ma qui faranno una scoperta ancora più terribile della precedente.

E’ purtroppo sempre più evidente come tutti i social stiano inglobando la pratica della critica (non solo) cinematografica, influenzando e dirottando il dibattito e i percorsi interpretativi e a volte addirittura decretando il successo o meno di opere che fino a poco tempo fa dipendevano quasi esclusivamente dal gradimento del pubblico. Don’t Look Up di Adam McKay è solo l’ultimo esempio e forse, in ordine di tempo, il più evidente: il film, costato 75 milioni di dollari e pieno zeppo di star, è partito a razzo con poche opinioni che lo additavano come il fenomeno cinematografico dell’anno, accostandolo ora al Dottor Stranamore di Kubrick (…), ora alle idee partorite dalle frange più estremiste di no-vax, ora alle posizioni più estreme degli ambientalisti. Di certo c’è che il film di McKay ha saputo accendere un dibattito, purtroppo falsato – e non poco – dalla prevedibile scarsa sostanza dei discorsi da web, paragonabili alle chiacchiere da parrucchiere.

Don’t Look Up è stato candidato a quattro Golden Globe ma, cosa più notevole, nei soli primi tre giorni su Netflix ha accumulato 111 milioni di ore di visione; scendendo però un po’ di più nello specifico, e per quel che può valere, siti come IMDb e Rotten Tomatoes hanno mostrato una spaccatura ben grossa tra il voto del pubblico (che oscillava sull’8) e quello dei critici (fermo sul 5).

Sta di fatto che Don’t Look Up è un’operetta morale dissacrante e grottesca che fa ridere e fa riflettere quel tanto che basta, ma sempre senza andare mai a fondo sugli argomenti che esplora, restando sulla superficie di una storia che vuole strizzare l’occhio al pubblico a tutti i costi, accarezzarlo e blandirlo con battute di facile appeal ma soprattutto mostrando una classe politica – americana, in questo caso – su cui ridere e di cui parlare male.

Ci sono poi Meryl Streep, che continua il suo periodo di grazia trasformando in oro ogni personaggio che decide di vestire, e Leonardo Di Caprio, che migliora di anno in anno; mentre Jennifer Lawrence, Cate Blanchett, Mark Rylance, Timothée Chalamet e Ron Perlman vanno con il pilota automatico. Certo la scrittura di McKay (autore della sceneggiatura) è affilata e non risparmia qualche stoccata gustosa, e a tratti il film mostra squarci di sguardo lucido su ciò che è diventato il mondo attraverso il filtro dei social (appunto) e di una comunicazione sempre più deviata. L’umorismo nero veste di insostenibile leggerezza anche le riflessioni più drammatiche: ma il problema resiste fino al finale posticcio e fuori fase, perché il film gode della sua leziosità e sembra essere fin troppo compiaciuto di un’intelligenza mostrata ma mai dimostrata. Potrebbe forse allora essere l’estremo divertissement autoriferito del regista: in questo senso, Don’t Look Up è godibile come lo è un’irresistibile cialtrone.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.