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DOVE ERAVAMO RIMASTI

DOVE ERAVAMO RIMASTI

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Un sincero ritratto di outsider del mondo musicale.

Qualche anno fa ho visto in concerto Lydia Lunch, una donna che incarna l’essenza del rock ‘n’ roll. Dietro le rughe, i chili in eccesso, i vestiti anacronisticamente succinti e provocanti, il pesante make up, ho intravisto una combattente, una donna che a cinquantacinque anni non ha smesso di credere in quello che fa e in come lo fa. La grinta, le urla sul palco, i bicchieri di vino tracannati e poi gettati violentemente a terra. Una messinscena, forse, ma efficace. Poi mi sono domandato come dovesse essere la vita privata di un personaggio di quel calibro, con tutti i suoi sbagli ed eccessi, le sue turbolenze, gli scheletri nell’armadio.

Il cinema americano degli ultimi anni sta tornando sempre più spesso ad affrontare il tema del rocker attempato alle prese con il viale del tramonto, il confronto con il peso delle responsabilità, e soprattutto quello con la propria famiglia. Solo per citare alcuni titoli recenti: Quel che sapeva Maisie (2013) con Julianne Moore rockstar sbandata in cerca del padre giusto per la piccola figlia, Danny Collins (2015) in cui la carriera (e la vita privata) del celebre cantante interpretato da un gigionesco Al Pacino è incrinata dalla rivelazione di una lettera scritta da John Lennon anni prima, che lo incitava a non svendersi all’industria musicale. E ora è il turno di Ricky and the Flash, intitolato da noi Dove eravamo rimasti, in cui la prospettiva è ribaltata su un versante proletario, poiché l’ormai sessantenne Ricky-Linda (una strepitosa Meryl Streep) il successo e la ribalta non li ha mai assaporati, e si limita a suonare, appassionatamente e felicemente, con la propria cover band in qualche bar di periferia, e a sbarcare il lunario come commessa in una grande catena di alimentari.

Su un’abile sceneggiatura del premio Oscar Diablo Cody, ormai garanzia di complessi ritratti femminili, dal simpatico Juno al ben più feroce Young Adult, il regista Jonathan Demme imbastisce una commedia dei sentimenti solo apparentemente consolatoria, in realtà dagli esiti incerti e poco conciliatori. Nell’America multirazziale di Obama la famiglia è ancora spaccata in due, ricchi da una parte, poveri dall’altra, senza troppe possibilità di convivenza. Ricky, che torna nella città d’origine per aiutare la figlia che ha tentato il suicidio dopo aver scoperto il tradimento del marito, è un’aliena alle prese con uno stile di vita borghese e una modalità di pensiero a lei estranee, e di cui non potrà mai più entrare a far parte. Il film di Demme, in linea con i film citati poco sopra e altro cinema americano recente, pare riportare l’orologio indietro di trent’anni, a quella filmografia fatta di conflitti famigliari e generazionali irrisolti, di lacrime, incomprensioni e tradimenti. Ma lo fa nella maniera più genuina possibile, come se ci trovassimo in un aggiornamento de La luce del giorno di Paul Schrader (sarà un caso che anche qui a suggello della pellicola ci sia una calda ballata di Springsteen?), dove i protagonisti sono invecchiati, perlomeno nel corpo, e devono interrogarsi sulle scelte intraprese nel corso di un’intera esistenza, per giungere alla conclusione, non scontata, che la famiglia non è una condanna, ma una via per ritrovare il proprio posto nel mondo.

Forse in altre mani lo script di Diablo Cody sarebbe suonato retorico e intriso di cliché, eppure in quelle capaci di Demme questo spaccato dolceamaro di una certa America tocca le corde giuste senza mai esagerare. Soltanto un regista che così tanto ama la musica, e che nel corso della sua carriera ha offerto al grande schermo straordinari ritratti di colossi del rock, poteva rappresentare con tale sincerità e sapienza il mondo di questi outsider della musica, le loro esibizioni sul palco, il loro calore e affetto, così come la realtà che li circonda. Non un’inquadratura fuori posto, non un volto che non sia perfetto, nessun tono celebrativo. Probabilmente solo Peter Bogdanovich in Quella cosa chiamata amore (anche se lì eravamo a Nashville e si parlava di country, ma poco cambia) era riuscito con tale passione e coevo entusiasmo a rappresentare il mondo che circonda la musica, a farcelo odorare ed entrare sottopelle, come se anche noi fossimo in uno di quei pub, a bere una birra e ad ascoltare Ricky and the Flash che intonano American Girl di Tom Petty o Let’s Work Together dei Canned Heat (c’è una sola canzone originale, e bellissima, Cold One, scritta da Jenny Lewis e Jonathan Rice).

Il cinema di Jonathan Demme non ha perso la propria sagacia nel sondare il retroterra culturale degli Usa, e questo film, che nel finale pare divenire l’immagine riflessa e speculare di un’altra sua opera, Rachel sta per sposarsi, fa della musica rock il collante, l’elemento catartico, di un gruppo di personaggi che paiono aver perso le coordinate della propria vita e dei propri desideri.

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Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".