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Il raggiungimento dell’armonia.

Ci sono film che chiedono di essere apprezzati soprattutto per le singole parti, sequenze, scene, inquadrature, pezzi di bravura. E ce ne sono altri che – pur non rifuggendo dalla precedente possibilità – chiedono allo spettatore di assaporare la tessitura finale, l’ordito, la trama complessiva per potersi svelare pienamente al cuore e porre in massima luce le loro ricchezze. Drive My Car è più del secondo ordine, naturalmente. Le tre ore dell’ultimo film di Ryǔsuke Hamaguchi sono sì estremamente fitte di dettagli (durante uno dei loro dialoghi, il giovane attore Koji Takatsuki dice al protagonista che lui e la moglie defunta avevano questa acribia in comune), ma solo il risultato finale, meglio ancora se ad una seconda visione, rende palese la raffinatezza superlativa del lavoro di regia, sceneggiatura, commento musicale e montaggio che lo innerva.

Dal materiale di partenza, alcuni racconti di Haruki Murakami variamente modificati, intrecciati ed espansi su una struttura che è ossimoricamente tanto ampia quanto intima, Hamaguchi procede per pazienti incroci, progressive aggiunte, epifanie dichiarate eppure naturali. Un po’ il metodo del regista teatrale Yusuke il quale, nel preparare lo Zio Vanja di Cechov per uno spettacolo multilingue, suo marchio di fabbrica, pretende dai suoi attori ripetute e fluviali letture comuni del testo dello scrittore russo. Ma Drive My Car non è un film sulla creazione artistica, sebbene questa sia una delle letture a margine che si potrebbero tentare. È viceversa un film sulla possibilità di un raggiungimento dell’armonia, declinato attraverso l’elaborazione della perdita e la presa di coscienza dell’inconoscibilità delle motivazioni dietro le singole azioni e gli eventi della vita. Nel lungo prologo di circa 40 minuti che precede i titoli di testa – quasi un film a sé – ci viene mostrato come Yusuke e la moglie Oto lavorino in sintonia, secondo un metodo che ha un ritmo peculiare, dipendente dal vissuto della coppia e dai segreti che condividono, ciascuno serbandoli a suo modo. Le restanti due ore e venti sono il resoconto delle esperienze di Yusuke nel tentativo di schivare prima (attraverso il lavoro metodico) e comprendere e accettare poi una verità più grande di quella che aveva fino allora creduto. Se il mondo di Yusuke si rispecchiava da principio nella complessa relazione con la figura della moglie, è mediante la dialettica con l’orizzonte degli altri personaggi, e in particolare la giovane autista che avrebbe l’età della figlia se questa fosse ancora viva, che l’uomo torna a lasciar fiorire la sua anima dopo essersi chiuso in sé.

Si potrebbero scegliere molti momenti per rappresentare efficacemente la ricchezza e la commozione che Drive My Car può ispirare. Gli strazianti istanti in cui Yusuke intende che le parole di Cechov lo riguardano direttamente e lo toccano nel vivo. Il bellissimo prefinale tra la neve in cui Yusuke e Misaki si abbracciano finalmente coscienti di come affrontare la vita (con palese sottolineatura nella sequenza immediatamente seguente, il celebre finale di Zio Vanja nella première dello spettacolo). E, prima, il racconto delle vicissitudini con la madre da parte della ragazza e il breve vagabondaggio a Hiroshima, luogo quanto mai simbolico del tema del film. O lo sgomento di Yusuke che scopre di non conoscere la conclusione di un racconto della moglie, confidato all’amante, una sorta di angolo cieco nella sua presunzione di sapere tutto di lei (e ci sarà pure una ragione se la partitura originale di Eiko Ishibashi viene sostituita, nella scena in cui Yusuke scopre Oto che lo tradisce, dalla musica diegetica del fatale, teso e capriccioso Rondò in La minore K 511 di Mozart). Tra tutti, forse il mio preferito è la cena a casa del produttore coreano e della moglie, attrice che si esprime nella lingua dei segni: da un’iniziale maggiore distanza, espressa anche con scelte di regia (alcune inquadrature e piani ce le rivelano), si passa a una più calda familiarità tra tutti i presenti. È una scena che si trova nel cuore della storia, giusto a metà: e mi piace pensare che abbia questa collocazione per costituirne la chiave, prefigurando il messaggio di fondo del film.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.