I mondi di Villeneuve.
A Denis Villeneuve piacciono le imprese impossibili e probabilmente anche i deserti, prima di Dune già protagonisti di Un 32 août sur terre, il suo film d’esordio uscito nel 1998 (1). E così, dopo essersi cimentato nei generi cinematografici più disparati, cinque anni fa con Arrival ha abbracciato la fantascienza filosofico-umanista-intimista per poi affrontare nel 2017 un’impresa titanica e ricca di insidie, ovvero quella di confrontarsi con un’opera di culto, quasi intoccabile, come Blade Runner di Ridley Scott, riuscendo con 2049 a realizzare un sequel d’autore complesso e stratificato, ambizioso e coraggioso, visivamente abbacinante, lontano e distante dai confusi e frenetici blockbuster americani contemporanei. Con Dune, tratto dalla prima parte del romanzo omonimo di Frank Herbert, Villeneuve gioca addirittura al rialzo perché, come sa bene, la posta in gioco è ancora più alta e rischiosa. C’è da farsi male a portare sul grande schermo Dune, testo epocale di metà anni ‘60, il primo capitolo del Ciclo di Dune composto da sei romanzi pubblicati dallo scrittore statunitense nell’arco di due decadi. Lo sa bene Alejandro Jodorowsky, che negli anni ‘70 arrivò a un passo dal dirigere la sua personale trasposizione dopo aver messo insieme un dream team composto da artisti del calibro di Moebius, Giger, Orson Welles, Salvador Dalí, Mick Jagger e Pink Floyd; e lo sa David Lynch che nel 1984 ne realizzò una versione piuttosto confusa e farraginosa prodotta dalla famiglia De Laurentiis, oggetto ai tempi di pesanti critiche e destinata a un sostanziale flop commerciale.
L’approccio di Villeneuve al genere sci-fi è lo stesso dei suoi due lavori precedenti (2), capaci di conquistare il plauso della critica e di ottenere un moderato successo di pubblico. È una fantascienza d’autore, complessa e stratificata, che mira a farsi profonda, mistica e filosofica, a costruire mondi e universi, a dar vita a un immaginario nuovo e potente, lontano e molto diverso da una saga come Star Wars. Il suo Dune, o meglio il primo capitolo a cui sembra che seguirà una seconda parte soltanto se gli incassi di questo riusciranno a far andare in attivo la Warner Bros – che per produrlo ha investito un budget enorme -, è un progetto ambizioso e irto di insidie nella misura in cui non cerca di assecondare e intercettare i gusti del pubblico, prendendosi tutto il tempo necessario per costruire e imbastire una space opera cupa e materica. Un’opera ostica e articolata, difficile da comprendere e giudicare appieno dopo questo primo capitolo tronco che avrà bisogno di una seconda parte per ampliare un percorso qui solo abbozzato, nonostante le due ore e mezza di durata. Il regista canadese, coautore della sceneggiatura insieme a Eric Roth e Jon Spaihts, riesce a costruire momenti di grande cinema, sequenze potenti e suggestive come l’attacco notturno sul pianeta Arrakis agli Atreides da parte degli Harkonnen, la parte migliore del film, con echi e rimandi al cinema epico e scespiriano di Akira Kurosawa. Le musiche firmate da Hans Zimmer, già autore insieme a Benjamin Wallfisch dello score di Blade Runner 2049, sono maestose e fascinose, un possente e riuscito connubio con gli scenari e i paesaggi di Arrakis e Caledan, i due pianeti dove si svolge gran parte dell’azione. Il Dune di Villeneuve è a conti fatti una space opera poco spaziale e molto sanguinaria e terragna che mira a discostarsi il più possibile, a livello visivo e scenografico, dai film e dai blockbuster di fantascienza fin qui prodotti e realizzati (si pensi ad esempio ai velivoli utilizzati per spostarsi su Arrakis, concepiti come una sorta d’incrocio tra un elicottero e una libellula). Un’operazione ardua e complessa, che difficilmente incontrerà il favore del grande pubblico anche a causa di un mancato coinvolgimento a livello emotivo. Questo Dune, oltre a essere piuttosto plumbeo e tetro, rivolto principalmente a un pubblico adulto e preparato, è sostanzialmente freddo e asettico, incapace di far appassionare lo spettatore alle sorti e alle vicende dei protagonisti, interpretati da un cast di grande richiamo in cui accanto ai lanciatissimi Chalamet e Zendaya spiccano i nomi di Oscar Isaac, Rebecca Ferguson, Javier Bardem, Charlotte Rampling e Stellan Skarsgard. Un film cerebrale con poco cuore e poca passione, teso a costruire un immaginario inedito, potente e evocativo, che si dimentica troppo spesso di essere un kolossal, costretto per sua natura a dialogare col pubblico, di cui ha un disperato bisogno, soprattutto in vista di una seconda parte che ci auguriamo possa vedere la luce (o meglio il buio della sala). Perché se Peter Jackson vent’anni fa era riuscito a superare un ostacolo che sembrava insormontabile girando tutti assieme i tre capitoli de Il Signore degli Anelli per abbattere e ammortizzare i costi produttivi, adesso a Villeneuve toccherà attendere il responso delle masse, decisivo e determinante per capire cosa ne sarà delle sorti del suo progetto ambizioso e autoriale, per certi aspetti davvero folle e periglioso, a cui va riconosciuto il merito di non essere sceso a patti o compromessi.
(1) Il film è disponibile su Mubi in versione originale con sottotitoli in italiano.
(2) Arrival presentato alla Mostra di Venezia nel 2016 e Blade Runner 2049, uscito in sala a inizio ottobre 2017.
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