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È SOLO LA FINE DEL MONDO

È SOLO LA FINE DEL MONDO

Juste la fin du monde foto4

Colmare il vuoto.

Xavier Dolan questa volta parla a tutti. Tutti hanno una famiglia, anche chi non ce l’ha. E il preambolo in capo a È solo la fine del mondo (Da qualche parte, un po’ di tempo fa…) parla chiaro e pone al centro del film l’essenza dell’individuo spogliandolo di ogni riferimento culturale, coordinata geografica, accidente temporale che rischierebbero in qualche modo di sporcarlo. Fin dalle prime sequenze in esterni è chiaro che ci troviamo nella parte francese del grande paese nordamericano patria del regista, il Canada, ma al tempo stesso Canada non è. Anche il fatto, per alcuni banale e purtroppo completamente sgretolato dalla versione doppiata, che gli attori, tutti francesi, mantengano il loro accento anziché sforzarsi di imitare la peculiare cadenza prerivoluzionaria dei coloni francesi che ancora rimane in Québec, la dice lunga su come il regista voglia mettere una distanza tra ciò che è potenziale, accidentale e ciò che invece è per tutti. Da qualche parte, un po’ di tempo fa… si diceva.
A tutti cioè può capitare di avere in famiglia un figlio gay, che ritorna al paesello dopo anni di quasi silenzio, dopo essere diventato un apprezzato drammaturgo per quel che intuiamo, per annunciare la propria morte (a causa di che cosa? Forse di AIDS? Non lo sappiamo con certezza). Ma come la potrebbero prendere una madre un po’ ansiosa ed entusiasta del ritorno (Nathalie Baye), un fratello e una sorella incazzati (Vincent Cassel e Léa Seydoux) e una cognata un po’ anonima (Marion Cotillard), che però forse è meno estranea del sangue del tuo sangue? Fin dalle prime battute viene in mente una folgorante battuta di un grande film degli anni ’90, Tempesta di ghiaccio, che la diceva lunga sulla famiglia, anche se in altre circostanze. “La famiglia è il vuoto dal quale si emerge al momento della nascita e il posto al quale torniamo quando moriamo”, pronunciata da un giovane Tobey Maguire. Nel mezzo, che succede?
Louis, il protagonista (Gaspard Ulliel, la cui performance dimessa, alcuni direbbero poco carismatica, riesce a non essere un difetto), come molti, magari più di quelli che si crederebbe, è costretto a scoprirlo un attimo prima della fine. Non quella fisica, ma nel momento in cui il ragazzo, descritto da Dolan come calmo, accondiscendente, che risponde alle angherie verbali del fratello con non più di tre parole (come pensa sua madre), si rende conto di non essere solo un testimone, come era stato fino a quel momento, della sua vita: un evento fluviale e immutabile che riguarda gli altri finché non riguarda noi stessi. Una collezione di indicibili ricordi soprattutto (il desiderio di rivedere la vecchia casa e il vecchio quartiere, il primo amore omosessuale, di Louis), che Dolan mette sotto una patina di dialoghi, scaramucce familiari e situazioni straordinariamente ordinarie.
Per buona parte del tempo si ha come l’impressione che il film sia in bilico tra un’esplicitazione autoimposta della solita autorialità di Dolan e la sensazione che il regista stia facendo le prove per il suo sbarco americano (il progetto The Death and Life of John F. Donovan è annunciato per il 2017). Ci sono le sequenze che qualche critico definirebbe videoclippare, che però pochi registi oltre Dolan sanno maneggiare (soprattutto con canzoni tremende come la romena Dragostea din tei, tormentone passato anche da noi nei primi 2000). Ma anche moltissimi particolari e primissimi piani, che incorniciano i volti di un cast all star, assieme a una musica non pop con cui prendere confidenza. Nel profluvio dei dialoghi che si reggono su gelosie, tradimenti, ammirazione, lo spettatore rischia di attendersi qualcos’altro che (teme) non arrivi mai, invece di quell’annuncio mortifero conclamato fin dall’inizio, con le sue inevitabili conseguenze.
E invece Dolan spiazza tutti, con un finale bellissimo che dà un senso tutto nuovo al suo cinema. A voler scavare nel psicanalitico, se fin dall’esordio emergeva il rapporto conflittuale con la figura genitoriale (lo stesso autore disse di aver realizzato J’ai tué ma mère per fare un dispetto alla madre) che si evolveva in veri casi di maternità complice di figli “problematici” ma anche di maternità abortita (nel precedente e splendido Mommy e in Laurence Anyways e il desiderio di una donna…, in cui, tra l’altro, la madre del protagonista era interpretata dalla stessa Nathalie Baye), qui gli archetipi del cinema precedente sono quanto mai presenti ed espliciti, esempio lampante il fratello rude e quasi sadico impersonato da Cassel, che sembra quello di Tom à la ferme, ma suonano come una risoluzione, se non definitiva, decisiva e necessaria di quei rapporti.
È solo la fine del mondo si muove su terreni scoscesi trovando l’essenza un istante prima della fine, in tutti i sensi. Riesce a non far confusione nel dire che l’importante non è l’essere ontologico (quando una persona muore si dice molto spesso che non c’è più) quanto l’esserci, per qualcosa, per qualcuno, oltre che per noi stessi. Che la tentazione di scansarsi nella vita è così forte perché molte volte è troppo doloroso starci. E così Dolan raggiunge quella levità di racconto in cui non stonano né il finale quasi di realismo magico con l’orologio a cucù, né il tacito patto di Louis con sua cognata, una grande Marion Cotillard impegnata con sguardi carichi di significato a riempire il vuoto lasciato dalle buone abitudini e dai discorsi banali di una moglie sottomessa .
Dolan parla a tutti, che non significa piacere a tutti. Il suo cinema precedente, sempre esploso e poi all’improvviso contratto ma a tutti i costi bigger than life, rimane qui trattenuto. E anche se può sembrare strano per uno che ha solo 27 anni, seppure al suo sesto lungometraggio, Dolan fa i conti con la propria maturità e sembra esserne totalmente capace. Si tratta di un processo irreversibile ormai, destinato a durare tutta la vita, che si ripresenterà ancora e ancora, per lui e per tutti noi.

voto_4

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.