Un ludico b-movie dallo sviluppo imprevedibile.
Gli schermi del Torino Film Festival sono spessissimo un’irrinunciabile opportunità per scoprire piccole e grandi pietre preziose che altrimenti resterebbero invisibili all’ignaro spettatore italiano, anche festivaliero. Figuriamoci poi se il film in questione è opera di un produttore spagnolo (di evidente origine basca, il suo cognome parla chiaro) che non ha remore a baloccarsi con i generi e dissimulare il messaggio politico dentro un congegno ben oliato e fruibile senza curarsi delle seconde letture: e persino facendosene beffe come diremo più avanti.
El Hoyo (letteralmente “fossa”, ma il titolo internazionale The Platform si riferisce alla pedana semovente che passa di livello in livello con il cibo, che i prigionieri devono cercare di mangiare per due minuti prima che la stessa scenda ancora) ha sulla carta uno spunto che lascia dubbiosi. Un riferimento possibile (uno fra molti) potrebbe essere Cube – Il Cubo di Vincenzo Natali, iconico ma non proprio irresistibile instant cult di oltre due decenni fa. Ma dopo le prime battute in cui lo spettatore comincia a fare conoscenza con quello che accade dentro questa prigione verticale-macchina di tortura che i detenuti (due per livello in una struttura che ne conta centinaia, nessuno sembra sapere esattamente quanti) possono scegliere per scontare vari tipi di pene, El Hoyo si trasforma continuamente e riserva non pochi colpi di scena, sapendo mantenere sempre viva la tensione e la curiosità del pubblico. Il prison movie e la sci-fi distopica si accendono di altre tinte, compreso il survival e l’horror con risvolti cannibalistici imperniato sulla lotta per l’esistenza degli affamatissimi ospiti dei livelli più profondi: ma il bello è che tutti possono ritrovarsi ospiti degli strati più bassi del carcere perché ogni mese gli stessi mutano. E non manca chi si muove da un livello all’altro, alla ricerca di un figlio o anche di una qualche speranza di redenzione, magari fondata su un’impossibile (?) evasione dall’infernale sistema penitenziario.
Solo un “meccanismo” che cela una metafora fin troppo palese? In realtà l’ingegnosa storia opera di David Desola e Pedro Rivero ha proprio l’accortezza di non arenarsi sui messaggi e sul senso da dare al film: che se tra i molti potenziali precursori può avere il cinema di Miike Takashi (ma sembra scritto da un Samuel Beckett o un James G. Ballard passati attraverso le droghe e il postmoderno), finisce per essere innanzitutto un ludico b-movie che prescinde anche dai residui dell’ideologia: tanto quella di sinistra (“Sei forse comunista?” viene chiesto in modo sarcastico al protagonista Goreng a un certo punto) tanto quella che ha base religiosa o intellettuale (entrambe prese in giro nella natura indeterminata del “Messia” o nel considerare una panna cotta come il possibile messaggio decisivo per la coscienza dei ribelli). Un film che va vissuto lasciando aperta la porta per farsi sorprendere, accettandone la forma ibrida e lo sviluppo imprevedibile per tutti i 90 minuti di durata. Come si suol dire: averne di film così.
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