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Elvis foto1

Il più grande spettacolo della Terra.

La morale, facile facile e ad uso dello spettatore diligente, pare arrivare alla fine, come nelle storie di una volta e come nelle parabole più classiche di ascesa e decadenza: Elvis Presley come un uccello che passa tutta la sua vita in volo, senza potersi fermare, senza riposo, altrimenti morirebbe. È il congedo per il pubblico che si è immedesimato nelle sue sorti, il lirismo cercato ad effetto, l’atteso unhappy end della biografia di un immenso musicista che non poteva vivere se non nell’adorazione del pubblico e nel riflesso di uno scaltro affarista come il Colonnello Tom Parker, padrone quasi assoluto della sua carriera e del suo destino. The Show Must Go On, come per un Bohemian Rhapsody qualsiasi, a dispetto di tutto, anche di The King.

Sarebbe semplice limitarsi a questo, anche prescindendo dalla tentazione di una lettura edipica: se Elvis blandisce la madre (“Sarai sempre la mia ragazza”) con la promessa di una Cadillac rosa, il film di Baz Luhrmann non è alla fine anche la storia di un reiterato tentativo di uccisione del padre? quello professionale e tirannico naturalmente, imparagonabile con la fragile figura di quello biologico (al quale Richard Roxburgh dona sfumature di patetica ed umbratile marionetta schiacciata da un ingranaggio che non è in grado nemmeno di capire, altro che padroneggiare!). Però c’è molto, moltissimo altro, in queste 2 ore e 40 di montagne russe stilistiche, tecniche e argomentative che esemplificano a perfezione la libertà d’approccio e la spavalda villaneria del regista di Australia. E quest’altro, a sorpresa, non è la musica.

Non passa più di un quarto d’ora ed è subito ovvio: Elvis è un predestinato e il film è l’accidentata storia di un supereroe. Compare una striscia di Captain Marvel Jr., c’è la prima esibizione dinanzi agli occhi del Colonnello, quindi il giovane astro nascente in cima alla ruota del luna park dice candido che ha sempre voluto “volare più veloce della luce verso la Rocca dell’Eternità”. Parker è il Mentore, la guida. Ci sono gli ostacoli interiori ed esteriori (Elvis è osteggiato dai tradizionalisti che lo temono e lo demonizzano, come Spider-Man), le soglie da attraversare, le cadute. Joseph Campbell e il suo viaggio dell’eroe, da manuale: e per favore, Marvel, scansati! Ma la musica, in questo, è solo il superpotere da cui derivano come da frase proverbiale le grandi responsabilità, non è il centro del discorso, quello riposa altrove, con buona pace di chi avrebbe auspicato un più profondo lavoro di interpretazione del personaggio e della sua influenza sul costume e sull’American Way of Life che verosimilmente non è nelle corde (e neanche nelle intenzioni) di Luhrmann.

E per dirla ancora più a chiare lettere, chi è che narra la storia di quel grandissimo intrattenitore da palco che fu Elvis? Il Colonnello, un grandissimo imbonitore, uno che non si sa se dica sempre la verità, fino a che punto lo faccia e se e dove la deformi per interesse personale, per nascondere il suo ruolo nella traiettoria di quella che ritiene la sua creatura. Ma che la sua versione del racconto la sa dare, eccome. Un racconto con la sua grandiosità, i suoi momenti di gloria e le sue omissioni, con le sue appropriazioni indebite come il successo dello show televisivo del Natale 1968 rivendicato come merito suo dal Colonnello. In fondo un racconto nella tradizione dello spettacolo hollywoodiano, spesso pacchiano e artefatto, spesso inaffidabile e semplicistico come i musicarelli di Presley, spesso e volentieri magniloquente anche quando è paccottiglia. In fondo, ancora, un grande soggetto, una mitologia. Elvis è un contenitore di miti e di esempi, è un film sul cinema, e in particolare sul cinema americano con le sue miserie, grandezze ed evoluzioni (e il suo apparente ed immobile sostrato ideologico, a ben pensarci). Un cinema capace di capitalizzare anche dal punto di vista dei suoi detrattori: illuminante a tal proposito la scena in cui il Colonnello enuncia il proposito di sfruttare l’odio di chi detesta Presley per vendere articoli di merchandising. Un cinema nel quale gli eventi che scuotono l’opinione pubblica e cambiano il clima della nazione vengono incanalati verso nuovi modelli produttivi e fruitivi oltre che alla volta di nuove tagliole per chi intenda sfuggire alla macina che pretende sempre nuovi spettacoli e la celebrazione dell’identico sotto altre, ben camuffate spoglie. (1) E un cinema che tra tanti spunti più o meno significativi, più o meno validi, fa sbucare pure la grande sequenza, quella che resta impressa nella memoria collettiva e che testimonia della capacità di saper cogliere i passaggi epocali, in un modo o in un altro, genio o cialtronaggine che sia: tale è quella dell’insegna malridotta sulla collina di Hollywood che si tramuta nell’elettrica ed elettrizzante sovrimpressione “Television”, con una sintesi concettuale che Tarantino, da romantico, ha allungato per un intero film in C’era una volta a… Hollywood.

È una festa greve, quella dell’Elvis ad opera di Baz Luhrmann, autore a tutto tondo da tanti detestato? Anche sì, verrebbe da affermare con piena cognizione di causa. Però non accampa alibi ideologici, se non altro. Tra il Pete Mitchell di Top Gun: Maverick che è ossessionato dal tempo che fugge, ma insinua il dubbio sul fatto che sia veramente time to let go, ora di lasciare andare, e un Elvis che pare viceversa affascinato dalla sfida con lo spazio (dal palco immenso dell’International Hotel di Las Vegas alla diretta in mondovisione dalle Hawaii), quale titano e quale opera rappresenta meglio l’immensa ambizione, ancora oggi, di mettere in scena il più grande spettacolo della Terra?

(1) Luhrmann qui è molto scaltro – oltre che molto sbrigativo, va da sé – nel citare in successione gli omicidi di Martin Luther King, Bobby Kennedy e Sharon Tate per meglio giustificare le fisime di Elvis all’interno della paranoia degli anni Settanta, ma ancora di più per mostrare l’abile mossa di Parker, che impedisce al suo protetto con ricatti psicologici e seduzioni affaristiche di avventurarsi altrove senza di lui.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.