Tratta da un’incredibile storia vera di quattro anni fa, questa miniserie prodotta dalla cable americana Showtime è incentrata sulla fuga dal penitenziario di massima sicurezza Clinton Correctional Facility (situato nello stato di New York, comune di Dannemora) di due detenuti aiutati da una dipendente del carcere. A dirigere tutti e sette gli episodi troviamo Ben Stiller, che siamo più abituati a considerare e apprezzare davanti alla macchina da presa, nonostante una carriera da regista, parallela a quella da attore, iniziata venticinque anni fa, nel 1994, con Giovani, carini e disoccupati e proseguita poi con diversi altri titoli (alcuni discreti). Nella miniserie tv prodotta da Showtime figura solo alla regia, di gran lunga la sua migliore e ispirata di sempre, solida e efficace, a suo agio con un genere lontano ed estraneo ai toni comici e brillanti che ne hanno decretato il successo e la fama internazionale.
Escape at Dannemora guarda al miglior cinema carcerario, un vero e proprio genere a se stante – il cosiddetto prison movie – nell’industria cinematografica statunitense. Nelle intenzioni sembra rifarsi a molti classici del passato e possiede una sceneggiatura di ferro (firmata da Brett Johnson e Michael Tolkin), capace di calamitare da subito l’attenzione dello spettatore e di farlo appassionare sempre di più col progredire della narrazione. Uno storytelling sapiente e magistrale che riesce a farci empatizzare coi due detenuti, Richard Matt e David Sweat, interpretati rispettivamente da Benicio del Toro e Paul Dano, giungendo a farci “tifare” per loro, a sperare per il buon esito del loro piano d’evasione. Almeno fino al sesto episodio, la puntata spartiacque che spariglia le carte e ci riporta alla realtà in modo brusco e drammatico: l’episodio più duro e scioccante, che abbandona e interrompe la narrazione degli eventi in senso cronologico, per mostrare al pubblico il motivo per cui i due uomini sono finiti dietro le sbarre e la vera natura di Tilly Mitchell, interpretata da una strepitosa Patricia Arquette. Attraverso tre flashback distinti e separati, ambientati nel 2003 per quanto riguarda il personaggio di Paul Dano, nel 1997 per del Toro e nel 1993 per quello della Arquette, veniamo a conoscenza dei crimini e delle azioni compiute in passato dai tre. Tilly, figura fin qui mesta e patetica, frustrata da una quotidianità piatta e banale, quasi tenera nella sua infatuazione per il detenuto David conosciuto nella sartoria del penitenziario, è in realtà una donna cattiva e meschina, concentrata unicamente su se stessa e sulla propria mediocrità. Il ruolo della vita per Patricia Arquette, che le ha appena fatto vincere un Golden Globe come miglior attrice di una miniserie tv. Invecchiata, imbruttita e appesantita, quasi irriconoscibile nel suo mimetismo che la fa sembrare pressoché identica alla vera Tilly Mitchell, tragicamente incattivita dall’esistenza, al termine del sesto episodio ghigna e disvela l’abisso dentro di sé, in un fermo immagine disturbante e respingente sulle note di My Wave dei Soundgarden. Non è da meno il Richard Matt di Benicio del Toro, che nei primi cinque episodi viene dipinto come un abile manipolatore e manovratore nell’ombra, quasi simpatico e accattivante nei suoi modi cinici e furbi, mentre nel sesto si svela ai nostri occhi per ciò che è realmente, un delinquente feroce e pericoloso, pronto a seviziare e a uccidere per estorcere denaro a un vecchio indifeso. Il più “innocente” dei tre è senz’altro David Sweat, il più giovane e il meno incarognito dalla vita, nonostante il tragico episodio che ne ha causato l’arresto e la lunga condanna da scontare in un penitenziario di massima sicurezza.
Più che di una miniserie si potrebbe parlare di un lungo film diviso in sette atti, che in Italia Sky ha pensato bene di diluire e allungare suddividendo l’ultimo episodio in due parti. Infatti, se Showtime in America a fine dicembre ha proposto la puntata conclusiva di oltre un’ora e mezza in un’unica soluzione, qui da noi Sky lo ha voluto dividere in due per rimandare di una settimana la conclusione – prevista per il 15 gennaio – e poterlo sfruttare per un altro prime time. Una scelta sbagliata che ne smorza e riduce il patos, una grave e fastidiosa mancanza di rispetto nei confronti del suo pubblico pagante. Supportata da uno script perfetto, la regia di Ben Stiller non sorprende solo per maturità e bravura nel gestire una materia narrativa fin qui poco esplorata nel corso di una carriera ultra trentennale, ma anche per le tante soluzioni visive e tecniche sfoggiate nel corso della serie. Si parte sulle sublimi note di From The Beginning di Emerson, Lake & Palmer (ripresa anche sul finale del primo episodio), si prosegue con una suggestiva dissolvenza incrociata (che chiude il secondo episodio riprendendo la prima immagine d’inizio puntata) e un incredibile piano sequenza di nove minuti sulle note di un jazz sincopato e frenetico (episodio cinque) per giungere alla conclusione con un lungo episodio (quasi un film a parte) incentrato sulla fuga dei due detenuti.
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