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Fall foto1

L’high concept all’ennesima potenza.

In certi film ci sono ottime idee servite poi con una trama che fa acqua da tutte le parti; in altri casi ci sono idee di una banalità sconcertante che, nelle mani giuste, restituiscono opere di prim’ordine.

Fall, diciamolo subito, si insinua nel secondo gruppo, quello più snello: e segue la scia di film straconosciuti e stravisti come Open Water di Chris Kentis (tre uomini dispersi a nuoto in mezzo al mare), Frozen di Adam Green (tre studenti sospesi nel vuoto in una seggiovia bloccata di notte) e magari anche The Blair Witch Project di Myrick e Sànchez (tre ragazzi persi nel bosco). Ovvero, un numero limitatissimo di protagonisti in scena e niente altro, per un high concept assoluto e definitivo.

Fall è in fondo un high concept portato all’ennesima potenza: due ragazze su un palo di una vecchia torre tv in una zona deserta, a 700 metri di altezza. Sole e senza possibilità di comunicare con nessuno. Conseguentemente, un film che dopo cinque minuti o ha già sparato le sue cartucce o ha avvolto nelle spire della tensione: l’opera di Scott Mann è tutte e due le cose, perché si capisce fin da subito che una delle due (o entrambe) non sopravvivrà all’impresa, ma nello stesso tempo i 107 minuti di durata del film non lasciano scampo, stretti nella morsa di una tensione creata in maniera cristallina.

È un po’ l’esatto opposto di Avatar, il concept cameroniano che si sviluppa su molteplici livelli e che ingigantisce le dimensioni fino ad avere una produzione ciclopica: come due sentieri inversamente proporzionali, Fall e Avatar crescono il primo in tensione (con tre elementi soltanto: due donne e una colonna di 700 mt) e il secondo in proporzioni (con infiniti elementi).

Ma se il moloch di James Cameron si può misurare solo con l’incasso – e non ha, neanche a vent’anni dal primo capitolo della saga, un fotogramma o un’immagine che rimangono -, il piccolissimo film di Mann si imprime nella mente con i suoi orizzonti sconfinati e deserti, le sue protagoniste disperate e talmente risapute da far sudare le mani fino alla fine, e un ritmo serrato che sfida lo sguardo della camera a trovare e seguire prospettive in continuo mutamento.

Nella sua finta banalità, il film gioca al rialzo con lo spettatore, portandolo in un campo che presuppone conosciuto e delimitato (un po’ come i film di sopra, Frozen, Open Water e The Blair Witch Project) per sedurlo e poi confonderlo sparigliando le carte, con l’intelligenza di chi sceglie la strada più battuta per comporre imboscate narrative continue, deviazioni inaspettate, piccoli corto circuiti spiazzanti e profondamente affascinanti. Perché riesce periodicamente a insinuare nella composizione del quadro dell’immagine l’altezza, riportando il senso di vuoto che permea l’intera narrazione. Un film che non lascia scampo.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.