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Nuovo Vinterberg, vecchio Hardy: risultato sbiadito.

È curioso come la prima affermazione editoriale di Thomas Hardy, il primo di una mezza dozzina di successi che gli hanno garantito un posto di riguardo nella letteratura anglosassone, nonché primo di quei romanzi ancora affrancati da quella tragedia (se si considera il lieto fine come il punto di discrimine) che sarà il cardine della sua produzione posteriore, si “scontri” con l’ultimo Vinterberg. Il fondatore, assieme a Lars von Tier, del manifesto Dogma 95, prima abbandonato e poi ripreso tra pellicole internazionali a fortune alterne, rifiorito grazie a Il sospetto qualche anno fa, porta infatti sullo schermo il quarto adattamento ufficiale di Via dalla pazza folla, e lo fa come non ci si aspetterebbe.

Con il libro si erano già confrontati John Schlesinger nel 1967 e in qualche modo Stephen Frears, adattando la graphic novel di Posy Simmonds, Tamara Drewe. Quest’ultima è una versione attuale e mondana del romanzo che, col senno di poi, era forse più adatta a Vinterberg rispetto a questa rivisitazione, la quale è comunque un prodotto su commissione che trova la sua solidità nel classicismo più misurato e riesce ad evitare il racconto a blocchi privilegiando una presentazione dei personaggi chiara, ma al tempo stesso sottile.
Batsheba Everden, prima delle grandi donne indipendenti della bibliografia di Hardy, che regala anche il suo nome alla moderna eroina Katniss degli Hunger Games, è una protofemminista sballottata tra tre pretendenti: il buon Gabriel Oak, per il quale lo spettatore parteggia grazie anche all’ottima l’interpretazione di Matthias Schoenaerts, è l’amore incrollabile, quieto e laborioso, Boldwood l’anima ferita e repressa che sa troppo di buon partito, mentre il sergente Troy è la passione più sfrenata e maligna.
E fin qui tutto bene, anche perché Vinterberg resta fedele ad Hardy anche nel mettere in scena quelle che lo scrittore chiamava le piccole ironie della vita: scherzi del fato che frustrano la traiettoria di vita dei personaggi, ricordando loro che al comando c’è una volontà immanente padrona del loro destino, pronta a manifestarsi impetuosa e il più delle volte appena dopo decisioni importanti: la violenta perdita del gregge da parte di Oak fa soffrire, mentre altre, come la sposa di Troy che sbaglia chiesa confondendosi coi nomi, fanno sorridere per come vengono trattate. Tuttavia, questa fedeltà al libro (anche nei dialoghi scritti da David Nicholls) si scopre presto essere un’arma a doppio taglio, che rischia di soffocare la mano di Vinterberg, raramente in grado di scavare anche solo un pelo più in profondità.
Manca del tutto lo sguardo dissacrante sul sospetto e sulla violenza a cui il regista ci aveva abituati e che, a ben vedere, avrebbero trovato nutrimento nel tragico calderone di Hardy, sempre in bilico tra pressioni delle convenzioni sociali e dominio della natura. Vinterberg purtroppo si mostra più interessato alla ricerca dell’immagine perfetta che incornici i primi piani belli e sensuali dei suoi attori (comunque tra le cose migliori del film), piuttosto che a descrivere un ambiente bucolico ribollente di significati, com’era il Wessex di Hardy: incantevole, ma anche duro, e soprattutto autentico.
Alla fine ci scappa un film corretto, ma che lascia poco o nulla il segno. Lo spettatore medio sarà contento nel vedere che Batsheba e Gabriel coronano finalmente il loro amore lasciando che la tensione sessuale, fino a quel momento ben controllata, trovi modo di germogliare; ma anche questo “lieto fine” – sono morte tre persone e una è finita in prigione – si mostra forse troppo esaustivo, andando a cancellare quello che c’è stato prima e i turbamenti che ne conseguono. Come dire, alti e bassi.

voto_3

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.