“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”.
La sera di lunedì 11 maggio sono andato al cinema restando a casa. Ho noleggiato Favolacce su una delle principali piattaforme streaming online, ho spento la luce, mi sono messo comodo sul divano e ho fatto partire la visione. Il secondo film scritto e diretto dai fratelli D’Innocenzo, premiato con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura all’ultima edizione della Berlinale, sarebbe dovuto uscire al cinema a metà aprile, ma come ben sappiamo non è stato possibile a causa del diffondersi del Covid19 che ha costretto a un lungo lockdown il nostro Paese. Sfumata la distribuzione in sala, i produttori hanno ripiegato sull’uscita sulle piattaforme on demand a partire dall’11 maggio, sperando di poterlo fare uscire sul grande schermo nei prossimi mesi, magari già in estate nelle arene all’aperto qualora ci fossero i presupposti per una riapertura.
Nella periferia romana, in una realtà suburbana in apparenza normale e tranquilla, vive una piccola comunità di famiglie composte da padri, madri e figli in età preadolescente. Dietro questa apparente normalità, all’interno dei vari villini a schiera tutti uguali uno all’altro, si celano un malessere e un’infelicità di fondo pronte a emergere con ferocia e violenza.
Al loro secondo film dopo il bell’esordio con La terra dell’abbastanza, i gemelli D’Innocenzo confermano di essere una della realtà più genuine e vitali dell’attuale panorama cinematografico di casa nostra. Favolacce si discosta totalmente dalla maggior parte dei film italiani che siamo abituati a vedere in questi anni, dimostrando quanto sia ambizioso, personale e coraggioso il percorso intrapreso dai due giovani autori romani, poco più che trentenni. Alle prese con una fiaba dark (introdotta e raccontata dalla voce narrante di Max Tortora, scelta indovinata e suggestiva) ingabbiata e impantanata in un contesto reale banale e monocorde, riescono a dar vita a un’opera potente e disturbante, composta da quadretti grotteschi, intrisa di immagini e scene sgradevoli e spiazzanti. I D’Innocenzo filmano, osservano e scrutano i personaggi di questa favola oscura e malata nei modi più diversi, talvolta da vicino con primi piani protratti e insistiti, talvolta da lontano in campo lungo o addirittura fuori campo per lasciare all’immaginazione dello spettatore i momenti più violenti e insopportabili. Il loro sguardo si fa empatico e misericordioso solo coi più piccoli, con questi ragazzini taciturni, spenti e privi di gioia e felicità, consapevoli dell’orrore circostante camuffato da sinistra e inquietante normalità. I loro occhi guardano quasi sempre in basso in presenza dei genitori, si mantengono fermi e silenziosi, provano a essere resilienti per poi progettare e passare ad azioni folli, inspiegabili dall’esterno, nel disperato tentativo di porre fine all’orrore che li circonda e attanaglia. L’approccio e lo sguardo degli autori è ben diverso nei confronti degli adulti, nel migliore dei casi diviene freddo e neutro, si avvicina a quello di un entomologo intento a studiare i comportamenti di un insetto in determinati spazi e circostanze. Spesso vengono ripresi e inquadrati in pose distorte e ravvicinate, a volte finiscono fuori fuoco e le loro frasi e parole risultano quasi incomprensibili, come se la macchina da presa avesse un moto di disprezzo o un sussulto di disgusto nei loro confronti. Tra gli adulti non si salva nessuno, essi sono talmente mostruosi, talmente inadeguati e inadatti a svolgere il ruolo di educatori, genitori e insegnanti che alla fine l’unico a essere in parte assolto è il più scollegato e avulso dalla realtà circostante (interpretato dal bravo Gabriel Montesi), l’unico che almeno dimostra di amare, seppur in modo goffo, sbagliato e grottesco, il proprio figlio. Damiano e Fabio D’Innocenzo guardano in parte a I Mostri della feroce e gloriosa commedia all’italiana, senza facili assoluzioni o compromessi, senza concedersi il lusso di una risata (qui al limite si abbozza un mezzo ghigno o si rimane a bocca aperta), ma sembrano più vicini alle opere destabilizzanti e respingenti di Ulrich Seidl e Michael Haneke. Favolacce è un film scomodo e provocatorio, per nulla pacificato e conciliante. Una (mal)sana boccata d’aria fresca di cui il cinema italiano aveva e sentiva un gran bisogno.
P.S. Impossibile non menzionare e elogiare l’azzeccata e incantevole colonna sonora, ancor più sorprendente se si pensa che non è stata scritta per il film ma tratta da Città notte, parte I e II, album pubblicato da Egisto Macchi nel 1972, mentre Passacaglia della vita, la sublime composizione classica che accompagna i titoli di coda, risale addirittura al 1657.
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