Dal labirinto.
Saverio Costanzo fonda una sorta di triumvirato con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, tre autori che sono stati capaci di rifondare un nuovo cinema italiano autoriale, che decostruisce le coordinate spaziali e temporali con un mood grottesco e surreale, quasi da horror metafisico.
Costanzo è probabilmente il più originale, e insieme il meno prolifico (cinque film in vent’anni, contro i dieci di Sorrentino e gli undici di Garrone), quello che più ha voluto e saputo prosciugare l’impatto visivo a favore dell’atmosfera, rendendo le sue storie come sospese in un liquido amniotico.
Nelle sue storie risuona forte il dolore assordante ma spesso (proprio perché incredibilmente intenso) silenzioso delle sofferenze e delle paure che segnano l’esistenza, anche nel poco compreso Hungry Hearts dove Costanzo si spingeva fino a raccontare quelle ossessioni materne che scardinano violentemente ogni sentimento ancestrale. Ma come tanti dei suoi colleghi – non ultimo il citato Sorrentino – ha utilizzato il mezzo televisivo e la narrazione seriale per mettere ordine al suo mondo intimo ed interiore e dargli una nuova conformazione, uguale e coerente a sé stessa ma nello stesso tempo più fresca.
In tutto questo, le sue storie compiono sempre un salto: dal personale all’universale, scivolano da un piano all’altro dell’esistenza mostrando la complessità che accomuna tutti: e Finalmente l’Alba è figlio di tutto questo percorso, anche questo poco compreso come il precedente ma anche questo straordinariamente cristallino nella messa in scena. Perché nasce come controcampo dell’omicidio di Wilma Montesi nel momento in cui coinvolge lo spettatore in un gioco di specchi tra la ragazza trovata morta nel 1953 a Roma, sulla spiaggia di Torvaianica, e la protagonista del film, Mimosa (Rebecca Antonaci), che in un percorso fisico e metafisico si sostituisce a poco a poco alla Montesi.
Certo il percorso è frastagliato e impervio: ma superato l’ostacolo (lui stesso ha alleggerito il film di 20 minuti per renderlo più accessibile al pubblico), si entra con Mimosa in un labirinto sensoriale e cinefilo, dove gli schermi e le superfici si sovrappongono, si confondono, si scambiano.
Per certi versi, così come Mimosa è un po’ una controfigura della Montesi, Finalmente l’Alba sembra la controparte di Babylon di Chazelle: sovrapponibile e insieme esattamente opposto. Roma al posto di Hollywood, il silenzio al posto della musica onnipresente, il buio al posto della luce: sono però entrambi un’ucronia, prendono spunto dal reale e sembrano più veri del vero, e tutto però insozzato, anzi sommerso nella stessa melma di bugie e illusioni, in quelle geografie, in quei territori dove la vita si trasforma in arte e l’arte prende forma dalla vita. In questo ancorarsi alla verità, in un modo o nell’altro, il film di Costanzo si avvicina allora più a Chazelle che a C’era Una Volta ad Hollywood (o anche il più riuscito Bastardi Senza Gloria) di Tarantino, che invece la vita vera preferisce piegarla ai sogni dell’autore.
È pur vero che Finalmente l’Alba è un film molto scritto: ma nelle sue pagine fitte di dialoghi si avverte palpitante l’emozione che straborda dallo schermo, che cerca spiragli da dove filtrare, perché man mano che la storia procede Mimosa è stretta in situazioni sempre più claustrofobiche che attendono il sole per essere aperte. E qua Costanzo mostra finalmente e definitivamente la sua felicissima predisposizione per lo sguardo gotico, per la sensibilità horror, con le fughe attraverso primi piano sghembi e deformanti: una tensione che si crea con l’ellissi narrativa e con il ritmo sincopato dello sguardo della macchina da presa, diventando la metamorfosi (a tratti anche spaventosa) del racconto teorico in tragica, disillusa realtà.
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