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Fiore foto3

Bolle di sapone tra le sbarre. Con tutta l’innocenza del mondo.

Dopo la scoperta di Alì ha gli occhi azzurri, la conferma con Fiore. Claudio Giovannesi, classe 1978, al terzo lungometraggio, ha semplicemente il dono, o almeno l’intelligenza, di girare al largo da qualsiasi moralismo. Figli fragili possono avere padri in difficoltà con la vita e con se stessi, oppure no, anche no, che c’entra.

Quando dopo mezz’ora, con calcolata ma lungimirante svolta di sceneggiatura, compare d’improvviso il genitore Mastandrea, potrebbe essere tutto un altro film. Con la famiglia che prova a rimettersi in piedi, con le spiegazioni, la sociologia e i traumi del passato. Invece no. Mastandrea è un uomo in attesa di capire se ce la fa a uscire dalla sua gabbia, dal suo incubo, non se la sente di prendersi in casa Daphne e sommare l’inferno della ragazza al suo. Quanti film italiani (e non solo) avrebbero avuto uguale coraggio, ma forse è solo questione di buon senso, di non correre dietro e nemmeno venire a patti con un luogo comune come questo?
E quando infine Daphne esce davvero dal carcere per un permesso di due giorni con il padre, la sua nuova compagna e il figlio di lei che festeggia la prima comunione, la macchina da presa cambia stile rispetto ai serrati pedinamenti dentro il carcere, tutti primi piani e piani ravvicinati. Daphne esce dal carcere: inquadratura del basso con la ragazza che di sottinsù mira il cielo. Poi tutti insieme vanno al mare: carrellata laterale dell’utilitaria che si avvicina alla spiaggia, molto bella perché inattesa dopo tutti quegli interni. È anche con questi accorgimenti, con queste pennellate di stile, che si fa la differenza nel confronto con tanti altri film nostrani che pretendono di catturare la vita.

Una vita che non si può comprimere, che scappa fuori da ogni parte, e che ha ragione anche delle sbarre di una prigione, dell’ottusità dei regolamenti, della rigidità dei carcerieri e degli spigoli del carattere come delle confusioni dell’adolescenza. Daphne e Josh sono separati da inferriate ipocritamente colorate di turchese, ma non sono quelle che li fermano. E poi, tra le sbarre, passano le bolle di sapone, quelle nessuno le può fermare. Si evoca, con piena giustizia, Un Chant d’Amour di Jean Genet, ma vanno bene anche Vigo e Truffaut, e poi si torna al principio, a una vita in fuga. La famiglia non è un’opzione, sia perché non lo è nella storia del film, sia perché c’è un’urgenza d’amare che non può essere mandata via con un’alzata di spalle e nemmeno con una pena detentiva. Daphne scappa, come all’inizio, ma stavolta non per farsi prendere. Perché stavolta con lei c’è Josh. In fuga dalla polizia, dall’autorità, dal rigore di istituzioni che non possono avere ragione del desiderio e di una forza impossibile da piegare. Un cinema giovane, intenso come i suoi attori, gli incredibili esordienti Daphne Scoccia e Josciua Algeri, volti meravigliosamente “nuovi” e che non si prestano a bamboleggiamenti, interpretando due “condannati” con tutta l’innocenza del mondo.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.