I non eroi dello spazio.
I primi cinque minuti di film sono concentrati in una lunga sequenza girata nell’abitacolo di un X-15, un aereo razzo sperimentale, e sono quanto di meno glamour ci sia per aprire il nuovo film di un regista che, subito prima di questo, ha realizzato un’opera di grande successo (anche) popolare come La La Land. Una serie di concitati close up spesso laterali (il primo e il primissimo piano ritornano per tutta la durata del film con un’insistenza anche metaforica molto voluta), inquadrature dei comandi e dell’altimetro, più una trafila interminabile di scambi via radio con la torre di comando: la prima carriera di Neil Armstrong come collaudatore, prima di partecipare al Programma Apollo, è segnata da un corpo a corpo ruvido come quello che l’uomo subisce nella sua vita personale, con il lutto della perdita per cancro della figlioletta, raccontato immediatamente dopo (1).
Le distanze, insomma, possono apparire molto brevi. Ma esistono sempre. Anche in un film così povero di totali, rinchiuso in ambienti angusti (la cucina e le stanze in penombra di casa Armstrong, gli abitacoli dei prototipi e dei razzi spaziali). E che è un film palpabilmente costruito tutto sulla misurazione e perlustrazione degli spazi. Tanto è grande quello che separa la Terra dalla Luna, così è minimo quello che si frappone tra Neil e gli affetti più cari, a partire dalla moglie Janet e dai bambini. Chazelle non sa scansare il prevedibile copione nel quale il tradizionale punto di vista “maschile” del professionista che si immerge nel suo lavoro diventa sempre più estraneo a quello “femminile” che agogna la tranquillità del focolare, in un rimbalzo continuo dall’uno all’altro che cade nella monotonia. Ma anche così, costretto in questo paradigma omerico, il regista riesce a confezionare un film di distanze che rimangono invalicabili; di offerte che sono solo apparenti per quanto assolute sembrino e di intangibilità che diventano legge dei cuori: la simbolica (anche troppo) scena finale echeggia il momento in cui Armstrong, piangente dentro la sua tuta spaziale nel bel mezzo del mare della Tranquillità, si lascia andare al ricordo della figlia defunta e a un ideale secondo addio. Il momento di massima gloria per l’eroe-pioniere e per l’umanità – un passo gigantesco – anziché nella prosopopea e nella celebrazione, scivola dentro all’intimità più lacerata e meno comunicabile.
Facile quindi imparentare First Man e La La Land. Storie di successi lavorativi che hanno anche un sapore privato di malinconica resa. In questa dicotomica uniformità si trova il limite più visibile del film. Non che ne manchino altri, dal disinteresse per lo sfondo (le turbolenze del periodo – dall’assassinio di Kennedy al Vietnam e all’insorgenza di gigantesche questioni sociali e razziali – non filtrano che in tralice, attutite, quasi ignorate) alle concessioni spettacolari (il sorvegliato commento musicale erompe, sia pure per poco, in esplosione orchestrale al momento dell’allunaggio). Interiorità inviolabile e immensità dello spazio, conquista del cosmo e senso di perdita, amore struggente per la famiglia e incapacità dolorosa di restare accanto alla persona amata, intrepidezza unita al raziocinio nell’affrontare le sfide più ardue e incompetenza nella vita domestica. First Man vive forse troppo di polarizzazioni, di successo e di fallimento, per non suonare solo profondamente americano: ma è comunque un film in cui la pietà e il turbamento delle tante commemorazioni funebri a cui si assiste non assumono mai i significati ambigui delle esequie che chiudevano American Sniper di Clint Eastwood. Qui ci sono solo lacrime, e la retorica degli eroi e delle bandiere a stelle e strisce per una volta è lasciata alla porta.
(1) Il personaggio di Sandra Bullock in Gravity raccontava a sua volta la perdita improvvisa della figlia di 4 anni.
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