Julie, madre di due bambini, è costretta a fare la pendolare per raggiungere in treno Parigi dove lavora come capo governante in un hotel a cinque stelle. Julie è divorziata, ha solo una vicina anziana che l’aiuta, a fatica, tenendole i figli prima e dopo la scuola perché l’ex marito è completamente assente. Quando riesce ad ottenere un colloquio importante uno sciopero a tappeto dei mezzi pubblici complica ulteriormente la sua quotidianità.
Il film di Eric Gravel, regista canadese trasferitosi in Francia da qualche anno, è costruito come un thriller frenetico e ansiogeno. La macchina da presa resta costantemente incollata addosso alla protagonista, interpretata dalla brava e intensa Laure Calamy premiata come miglior attrice nella sezione Orizzonti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove Full Time – Al cento per cento ha ottenuto anche il premio per la miglior regia. A partire dalla mattina presto, in cui la vediamo e la sentiamo respirare ancora immersa in un sonno profondo poco prima che la sveglia suoni per dare il via all’ennesima giornata infernale, sempre di corsa, sempre in affanno, sola contro tutto e tutti. Non sembra esserci scampo per Julie, alle prese con difficoltà economiche, acuite dagli alimenti dell’ex marito che tardano ad arrivare, e complicazioni logistiche, con la vicina anziana che non se la sente più di tenerle i bambini fino a tarda sera. Il maxi sciopero che paralizza Parigi e la Francia rende impossibile la vita di Julie e di tanti pendolari come lei, già provati da ritmi di vita estenuanti e logoranti, è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso. Gravel pedina la sua protagonista da mattino a sera, filmando la sua odissea quotidiana e le sue settimane complicate e spossanti al ritmo di una martellante musica elettronica, mostrandoci la sua forza e tenacia nel cercare di provvedere ai bisogni dei suoi bambini, organizzando feste di compleanno nel fine settimana, senza mettere da parte le sue speranze e ambizioni per una carriera che ha dovuto interrompere a causa della doppia maternità e che adesso vorrebbe riprendere prima che sia troppo tardi, prima che diventi troppo vecchia per un mercato del lavoro sempre più spietato e disumano. Solo sul finale di questo viaggio claustrofobico e angoscioso intravediamo un piccolo barlume di speranza, per Julie ma anche per noi spettatori, chiamati a immedesimarci con lei e a condividerne le peripezie (almeno per novanta minuti). Quello che in superficie potrebbe sembrare un lieto fine inatteso in realtà è un finale aperto che non azzera certo le enormi tensioni e difficoltà mostrate in precedenza, a cui probabilmente ne faranno seguito altre. Full Time – Al cento per cento è uscito nelle nostre sale in contemporanea con Un altro Mondo, capitolo finale della trilogia sul mondo del lavoro di Stéphane Brizé e una settimana prima dell’arrivo al cinema di un altro film francese, Tra due mondi del regista e scrittore Emmanuel Carrère, incentrato sempre sul medesimo argomento. A quanto pare i nostri cugini d’Oltralpe hanno ancora voglia di occuparsi di questioni reali, attuali e scottanti legate al mondo del lavoro, sempre più precario e crudele, soprattutto per chi appartiene alle classi sociali meno protette e tutelate, costretto a pulire la merda dei ricchi per riuscire a sopravvivere e sbarcare il lunario. Che fine ha fatto invece il cinema italiano che in passato si è occupato di queste tematiche in modo serio, credibile e calzante e che oggi, purtroppo, sembra sempre più spesso scollegato dalla realtà e dal nostro vivere quotidiano?
A chi avesse voglia di approfondire la questione consigliamo di recuperare due titoli fondamentali, purtroppo poco noti al grande pubblico, del nostro cinema legati al mondo del lavoro: I Compagni di Mario Monicelli e Trevico-Torino di Ettore Scola. Invece uno degli ultimi film di casa nostra, in ordine di tempo, incentrati su dinamiche lavorative logoranti e sfiancanti è Sole, cuore, amore di Daniele Vicari, titolo che presenta diverse analogie con Full Time – Al cento per cento.
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