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GIOCO D’AMORE

GIOCO D’AMORE

Sam-Raimi-Giocodamore

Il gioco del coraggio.

Il coraggio. Il coraggio di fare le scelta giusta, di dare una direzione alla propria esistenza. Il coraggio di accettare l’affetto delle persone amate, ricambiandolo. Il coraggio di piangere, di essere uomini, soprattutto. Ecco, Gioco d’amore è un film sul coraggio, più che sullo sport. Coraggio anche da parte del suo regista e del suo attore-produttore Kevin Costner. For Love of the Game (1999) accolto alla sua uscita da un coro unanime di stroncature da parte dei cinefili e di certa critica snob (“dai film horror ad un orrore di film” scrissero su Ciak, e via dicendo), non è una sortita inaspettata nel lungo percorso di Sam Raimi, appare viceversa in linea con la “maturazione” stilistica e tematica inaugurata già qualche anno prima in Soldi sporchi, che troverà poi conferma in The Gift così come nella trilogia blockbuster dedicata al supereroe Marvel Spider-Man, che costituisce una sorta di ponte tra le due fasi della carriera del regista, quella più libera e anarcoide degli esordi, e le sottigliezze “classiche” e romantiche attuali. Se il vate dell’operazione è senza alcun dubbio Kevin Costner, divo che tenta di ritagliarsi uno spazio tutto suo all’interno dell’establishment hollywoodiano, lontano da ogni moda e facile tendenza, Raimi accetta di buon occhio, e non senza prendersi qualche rischio, il compito di portare sullo schermo quello che è un vero e proprio melodramma classico a sfondo sportivo.

Billy Chapel (Costner) è il pitcher, il lanciatore, della squadra di baseball dei Detroit Tigers, ha un passato glorioso alle spalle, ma gli anni passano, il braccio, in seguito ad un incidente, non è più quello di un tempo, quindi i suoi manager vorrebbero cederlo alla fine della stagione. Una partita decisiva sarà l’occasione per rivedere a ritroso tutta la propria esistenza, per fare i conti con i demoni del passato, ripercorrere sbagli e gioie, capire che senza l’amore (la fidanzata Jane, interpretata da Kelly Preston, lo ha lasciato e sta per trasferirsi in un’altra città) tutto sarà stato vano. E il fato vorrà che proprio questa sia per Chapel la “partita perfetta” e definitiva, quella in cui il lanciatore non viene mai eliminato dal gioco. A corollario di una certa attitudine del cinema a stelle e strisce di fine anni novanta a ritrovare le atmosfere minnelliane e melodrammatiche appartenenti al passato (basti pensare al successo di un film come I ponti di Madison County di Eastwood), Gioco d’amore è una pellicola che non si vergogna nell’affrontare di petto retorica e cliché. “C’è qui un assoluta coincidenza d’intenti, come raramente se ne vedono, tra un regista che con entusiasmo adolescenziale scopre la sincerità dei sentimenti primari e un attore che lo asseconda in tutto, dandosi con virile malinconia, indossando sulla propria pelle lo spirito pudico e spudorato che Raimi conferisce a questo suo outing. Gioco d’amore arriva al cuore pulsante di Hollywood, là dove è di casa il coraggio della retorica”.*

Finalmente in For Love of the Game i personaggi di Raimi si fanno di carne, lacrime e sangue, non sono più i pupazzi animati della serie Evil Dead o gli oscuri eroi da fumetto come Darkman. Lo sport, il baseball, con le sue mille regole incomprensibili a chi non sia già un appassionato dello sport nazionale americano, diventa metafora della vita con tutti i suoi ostacoli e contraddizioni, un gioco, come l’amore, che non ammette mezzi termini o indecisioni, in cui si scende in campo per vincere e realizzarsi. Kevin Costner si fa carico del suo personaggio con ammirevole e toccante partecipazione, con piglio quasi autobiografico, una ex leggenda sul viale del tramonto che sceglie di alzare la testa per un ultima volta, e dimostrare a tutti quanti il proprio valore, la stoffa di cui sono fatti i veri uomini. Non c’è nessuna traccia di pietismo o auto-celebrazione in tutto ciò, semmai l’opera di Sam Raimi ambirebbe ad essere una dichiarazione d’intenti rivolta alla nuova Hollywood, un film magnificamente classico e lineare che ricorda che il cinema americano deve ancora chiudere i conti col proprio passato. Forse con qualche lungaggine e reiterazione (i conflitti tra la celebrità Billy e l’almeno inizialmente più innamorata e proletaria Jane), e qualche melensaggine di sorta intrinseca alla sceneggiatura di Dana Stevens, ma anche con una sincerità d’intenti spiazzante, e una messa in scena di respiro talmente classico e anacronistico da togliere il fiato (raramente, inoltre, si ricordano sequenze di gioco così appassionanti e ben girate).

Gioco d’amore è forse il melodramma (sportivo) definitivo girato a Hollywood, un punto di non ritorno per il genere come fu Gli spietati di Eastwood per il western, un film che ha il coraggio, e l’audacia, di chiedere al proprio pubblico di commuoversi e non dimenticare. Perfetti i volti nel cast di contorno (John C. Reilly è il migliore amico di Costner, J.K. Simmons l’allenatore del team, Brian Cox il proprietario della squadra) e davvero indimenticabili (al contrario delle canzoni pop) e trascinanti le musiche originali del compianto Basil Poledouris, qui ad uno dei suoi ultimi lavori per il grande schermo.

*Alessandro Borri, “Melodramma”, in Leonardo Gandini, Roy Menarini (a cura di), Hollywood 2000, Le Mani, 2001, Recco

voto_5

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".