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GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 2

GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 2

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Alle fondamenta dell’immaginario del cinema americano.

Salvare la galassia questa volta, ancor più che nella precedente avventura, diventa una questione di famiglia. Perché se è vero che il bravo James Gunn prende tutto quello che funzionava nel prototipo ingigantendolo e sotto molti punti di vista “migliorandolo”, in questo Volume 2 dei Guardiani della galassia non capita in fondo davvero nulla di “epocale” o di rilevanza fondamentale per le sorti e la prosecuzione del ciclo narrativo dei film Marvel, ma si preferisce puntare la lente d’ingrandimento sui folli e disadattati protagonisti, scandagliandone motivazioni e traumi passati, così come si cerca di ampliare e contestualizzare il ruolo dei molteplici comprimari. Non stupisca perciò che il risultato si avvicini di più ai toni da commedia umana degli Hellboy di Guillermo Del Toro che a quelli epici e rocamboleschi di altri film griffati Marvel Studios. E che per la seconda volta in poche settimane dopo l’ottavo Fast and Furious un kolossal hollywoodiano ribadisca il valore incontrovertibile della famiglia (allargata, multirazziale… spaziale) non è cosa da sottovalutare, così come il desiderio di certo cinema americano di reinventarsi e ripensare a sé stesso a partire dai fondamenti della propria cultura. Non è soltanto un cinema che si nutre della nostalgia del pubblico, come tanti prodotti più furbi che davvero riusciti (a partire da Stranger Things) nonostante i riferimenti al passato, agli anni ’70 e ’80 e alla sua cultura pop, dai videogame alle hit radiofoniche, fino ai suoi idoli decaduti e grotteschi (geniale l’apparizione di David Hasselhoff). E’ un cinema che ricicla quell’immaginario, ma al contempo ne discute le fondamenta, che mette in discussione i “padri” fondatori di quella decade, a partire dall’iconico e rassicurante Kurt Russell (ma significativa e non casuale è anche la presenza di Sylvester Stallone), per santificare ed eroicizzare il volto pazzo, sregolato e simbolico dell’outsider Michael Rooker, che con Henry pioggia di sangue ha raccolto l’eredità di quel cinema, destabilizzandolo e sporcandolo definitivamente, chiudendo le fila di un decennio all’insegna di inquietudini mai sopite. E sempre all’interno di uno spettacolo roboante e digi-psichedelico in misura ancora più sostenuta rispetto al recente Doctor Strange, in cui il lavoro sui colori e la tridimensionalità lascia sovente a bocca spalancata, James Gunn confeziona un cinefumetto di rara umanità ed “intimismo” che non sacrifica mai le psicologie alle ragioni del botteghino, e in cui si respira lo stesso struggente romanticismo, la stessa cura per i personaggi (ognuno sviluppato ottimamente nel proprio autoconclusivo arco narrativo: in questo senso Guardiani della galassia Vol. 2 è anche un perfetto manuale di sceneggiatura hollywoodiana) delle più felici sortite Pixar. E dove ogni sequenza è concepita come un pezzo di virtuosismo a sé e si cerca di non rincorrere le soluzioni più ovvie: dal piano sequenza iniziale dove si rimane incollati al punto di vista del Baby Groot (inflazionato, ma indubbiamente delizioso) che danza sulle note di Mr. Blue Sky, all’incredibile fuga dalla nave Ravager con la freccia volante di Yondu che disegna mirabolanti architetture astratte sino al finale in cui, con esiti esilaranti, si sposta l’attenzione sull’insensata ricerca di un fantomatico nastro adesivo da parte del procione parlante Rocket piuttosto che sulla battaglia interstellare che sta tenendo impegnati gli altri protagonisti. Gunn è riuscito nella – miracolosa – impresa di perfezionare il mix di risate e azione che contraddistingueva il precedente film, arricchendo l’universo da lui pianificato in un percorso non dissimile da quello della prima trilogia di Star Wars. Impossibile resistere all’affiatamento e alla simpatia del cast così come alla colonna sonora che mescola celebri brani come The Chain dei Fleetwod Mac, Surrender dei Cheap Trick e My Sweet Lord di George Harrison, a ripescaggi “tarantiniani” di oscure gemme pop come la travolgente Come a Little Bit Closer di Jay and the Americans o Southern Nights nella versione country di Glen Campbell. Al largo i cinici: è il miglior cinecomic di sempre assieme a Spider-Man 2 di Sam Raimi.

voto_5

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".