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La conclusione del viaggio.

L’MCU, in quanto fenomeno globale, ha intorno a sé una bolla nella quale ci sono leggi e regole tutte sue: e in quella bolla sono ancora aperti i dibattiti sull’andamento cinematografico di questo universo cinematografico.

Perché la fine della Fase Tre ha conciso sia con la fine della Saga dell’Infinito, sia con l’arrivo di Disney Plus e i suoi show tv: i quali non solo hanno allargato a dismisura i confini e le possibilità d’incastro di quell’universo narrativo condiviso su grande schermo, ma hanno anche portato ad una bulimia produttiva che inevitabilmente ha intaccato la qualità.

Punto di svolta di tutto questo è stato Avengers: Endgame, dei fratelli Anthony & Joe Russo, che è il più grande incasso della storia del cinema (subito dopo Avatar) ma anche uno dei punti più alti raggiunti dalla scrittura dell’MCU. Inevitabilmente, il film è stato sia oggetto di culto sia pietra di paragone per tutto quello che è venuto dopo.

Ovvero una marea di film e serial che, indipendentemente dal confronto, hanno portato (giustamente e intelligentemente) la narrazione principale dell’MCU su percorsi differenti rispetto agli inizi, mettendo al centro delle riflessioni teoriche la famiglia – da WandaVision a Mrs. Marvel a Wakanda Forever -: ed ora, all’ingresso nella Fase Cinque (che, dopo la Quattro e prima della Sei, prosegue la macrotrama della Saga Del Multiverso), mette un punto e a capo proprio come Endgame, restituendo suggestioni sulla morte e sull’accettazione della perdita.

Lo fa grazie ad un autore fuori classe come James Gunn alle sue ultime prove Marvel prima di passare alla DC Warner, e con Guardians Of The Galaxy vol.3, chiusura della trilogia iniziata nel 2014 e continuata nel 2017.

Gunn è la dimostrazione pratica che quando l’epos Marvel viene maneggiato e declinato da un autore, il risultato è una mitologia densa di significati a temperature emotive altissime: se all’inizio Peter Quill e soci ricreavano Star Wars per il nuovo millennio con la rivisitazione di un immaginario vintage proiettato nel futuro (il simbolo era il walkman del protagonista e il suo awesome mix), adesso invece Gunn riprende L’Isola del Dottor Moreau, Viaggio Allucinante, Fuga da Alcatraz, l’immaginario western, filtrando tutto con le lenti bifocali e multicromatiche di un Willy Wonka dopato e all’ennesima potenza.

Se non si vuole scomodare il termine capolavoro, abusato e inflazionato, non c’è però dubbio che Guardians Of The Galaxy vol.3 sia un film di grande peso: non potrebbe definirsi altrimenti un racconto che a distanza di poche scene riesce a coinvolgere lo spettatore talmente tanto al punto da farlo prima ridere e poi piangere, che è un pamphlet e un’ode ai freak, ai diversi che diventano unici, ai disadattati.

Come affrontare, e raccontare tutto questo senza cadere nel patetismo?

Era necessario un grande autore, qualcuno con una cifra stilistica ben precisa oltre che personale, che potesse e dovesse solo adattare le sue ossessioni alle esigenze del racconto: James Gunn è conseguentemente l’uomo giusto al momento giusto, il regista giusto nel film giusto, il weirdo necessario, l’uomo della Troma prestato alla grande distribuzione: visto che la trilogia è la storia di Rocket e Groot, della loro crescita – e contemporaneamente, racconto biografico di chi vive ai margini, un borderline, perché Gunn è Groot e Rocket insieme.

Solo in questo modo, la conclusione del viaggio diventa inevitabile e doverosa, inesorabile nel suo percorso; un finale dove i protagonisti intrecciano le loro relazioni personali e le portano a compimento, arrivando alla fine del sentiero con un abbraccio fortissimo, in un finale realmente toccante.

Un nucleo tematico ribollente che già viene fuori dalla prima sequenza, così risolutiva, così rivelatrice: una versione acustica di Creep su una lunga scena muta, che chiude il tempo della farsa, con una risata soffocata nel pianto. Guardians Of The Galaxy vol.3 non poteva e non doveva essere altro che un elogio dell’imperfezione, del fuori fuoco, che si traduce in un film sbilanciato ma appassionato e appassionante, fatto con il cuore e con la pancia e con poco ragionamento.

Per questo il film di Gunn supera d’un balzo Quantumania (peraltro con le sue belle motivazioni dietro, ma forse più di cervello che di pancia) e si affianca ad un altro commovente capitolo recente dell’MCU, il Wakanda Forever che non per caso parla di lutto, perdita e accettazione.

Insieme per ballare al suono di una canzone, nonostante le ferite e il dolore: ma con la consapevolezza banale eppure necessaria che il sapore amaro della fine (o di una fine) può diventare subito dopo una meravigliosa sensazione di libertà e leggerezza verso un futuro dolce e pieno di una nuova speranza.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.