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Ham2

Il controverso film su Bettino Craxi.

Certo il coraggio non è mancato, a Gianni Amelio: dopo 13 film e almeno 3 capolavori all’attivo ha deciso di rimettersi in gioco girando un film su una delle figure politiche più controverse della storia italiana, Bettino Craxi.

Di innegabilmente riuscito c’è il modo che il regista di La Tenerezza ha utilizzato per raccontare l’uomo che morì in esilio volontario (o prigione dorata, a seconda dei punti di vista) ad Hammamet per sfuggire alle quattro condanne che l’allora rivoluzionaria e inaspettata Tangentopoli aveva messo sulla sua testa: ovvero, la chiave intima, il racconto personale, il diario emotivo degli ultimi giorni di vita di Craxi. Che poi, di nomi – e di cognomi – Amelio non ne fa neanche uno, se non quello (ovviamente falsato) della figlia Stefania, che diventa qui Anita: una maniera per rendere plurale il singolare, e d’altronde non poteva essere altrimenti per sfuggire alle gabbie della contingenza per arrivare alla vibrazione artistica.

Hammamet è un’opera che lascia interdetti: come sempre, Amelio dà il meglio di sé nella costruzione delle interrelazioni tra i personaggi, che balzano fuori dallo schermo per prendere vita anche grazie allo straordinario mimetismo degli interpreti. Uno su tutti, il chiacchierato Pierfrancesco Favino, che nonostante dia una prova ai limiti del calligrafismo (che è sempre pericolosissimo al cinema, in quanto rischia di far sparire la prova recitativa) riesce ad essere gigantesco. Come gigantesca ne esce fuori la figura narrativa centrale: tragica, palpitante, controversa, la persona di Craxi viene restituita in tutte le sue sfaccettature personali e psicologiche, dalla sconfitta che pesava sul suo orgoglio ferito al tradimento del partito e degli amici, fino alla scivolosa deriva politica che si dispiega nelle pagine tra le più aspre e dibattute dell’Italia ferita e indignata di Tangentopoli. Il Craxi di Favino e Amelio sembra combattere contro sé stesso, più che contro altri: rinchiuso nella sua villa – quella vera è stata peraltro location del film – da privilegiato anche se non ricchissimo come volevano le voci, questo Craxi porta su di sé tutto il peso del film e lo fa con disinvoltura e con lo spessore emotivo della tragedia più classica. C’è tanto teatro, in Hammamet: ci sono Elettra e Cassandra in Anita/Stefania, c’è Re Lear nello stesso Bettino, c’è soprattutto una storia di fantasmi (sociali, personali, familiari, sentimentali) che visitano gli ultimi giorni del protagonista e che fanno sì che l’opera di Amelio non sia il risultato di un’operazione di recupero del rimosso politico, bensì un approfondimento sulla fine di un’epoca. Alla fine Hammamet non è un bio-pic, ma piuttosto un death-pic, un film di morte e sulla morte.

Sulla morte di un uomo, ma anche e soprattutto sulla morte di un’era, sulla morte della politica intesa in senso letterale e “alto”: nel triplice (e poco riuscito) finale del film c’è una sequenza che più di altre restituisce il senso dell’operazione di Amelio (rischiosa, dicevamo, ma anche in fin dei conti ambigua), dove il corpo in fin di vita di Bettino, immobile su una sedia a rotelle, viene messo al centro di un palcoscenico da cabaret anticipando, nel film come nella realtà, la politica come spettacolo sfarzoso, anzi come avanspettacolo da quattro soldi. La luce opaca che avvolge la villa e i suoi personaggi, il bianco accecante che spara sui titoli di coda e di testa, sono una dissolvenza in bianco che in modo magniloquente celebra la morte, e non la vita.

Peccato che, dopo tutto questo enorme, magnifico impianto narrativo-cinematografico, Amelio scelga poi di sbracare il tutto sbandando completamente in un finale posticcio e scritto malissimo: come se non si fidasse di quanto ha messo in scena (e quindi di Favino in costante controllo dell’overacting, di un Carpentieri di classe, dei dialoghi perfetti di Taraglio), decide di triplicare il finale, sciogliendo in un colpo solo il groviglio emotivo che aveva creato nei 110 minuti precedenti: Il Primo Uomo aveva già dimostrato come Amelio non sia padrone dei toni onirici, ma riesca meglio nel racconto morale, lucido e teso. Quindi l’accostamento al Bellocchio perfetto di Buongiorno, Notte è infelice e perso in partenza, l’eco felliniano è sbiadito, l’accenno onirico fuori luogo (come tutto il personaggio di Fausto, Luca Filippi), l’insistenza sulla fionda e sulla memoria immotivata.

Alla fine, Hammamet stravince quando ricostruisce lo spaccato umano e, in maniera sottile, gli affianca una metafora metatestuale, sociale e politica: ma se il regista avesse avuto il coraggio di andare fino in fondo, evitando di ammassare temi e sottotesti, risultando oltretutto grammaticalmente confuso, avrebbe semplicemente raccontato il crepuscolo dell’uomo in maniera esemplare. In questo modo, è un’occasione andata a male.

voto_3

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.