L’inconsistenza del nucleo familiare.
Michael Haneke è uno degli autori più amati e premiati dal Festival di Cannes, che da vent’anni tiene a battesimo ogni suo nuovo lungometraggio (1), destinato sempre e comunque a far discutere. Happy End, il nuovo film del glaciale e rigoroso cineasta austriaco, rappresenta una piccola eccezione per il semplice fatto di non aver ricevuto alcun riconoscimento sulla Croisette, dove ha avuto un’accoglienza piuttosto tiepida rispetto al recente passato (2). Nel suo ultimo lavoro Haneke spiazza e destabilizza il suo pubblico di riferimento, ricorrendo a più riprese a toni ironici e grotteschi. Happy End risulta meno crudo, meno raggelante e respingente rispetto a gran parte della sua filmografia, come se dinanzi alla follia e alla decadenza della società contemporanea il regista austriaco avesse preso la decisione di stemperare gli aspetti più spigolosi e disturbanti del suo modo di fare cinema. Di fronte al nucleo familiare malato, disfunzionale e anaffettivo rappresentato dai Laurent, appartenenti all’alta borghesia francese, con padri e madri incapaci di svolgere il proprio ruolo, disattenti ai bisogni dei figli perché troppo presi dalle proprie vite e dalle carriere da portare avanti, non resta che arrendersi nel constatare lo sfacelo e il declino della vecchia Europa e dei suoi valori. Davanti ad un’impalcatura fatta di apparenze e ipocrisie non rimane altro che una risata liberatoria, per difendersi in qualche modo dalle mostruosità e dagli scheletri nell’armadio di una classe dirigente altoborghese che insegue e persegue il profitto e l’interesse, stando attenta a rispettare unicamente il politicamente corretto.
In Happy End non ci sono sequenze a effetto, non sono presenti gli inaspettati e improvvisi scoppi di violenza che hanno reso celebre Haneke a livello internazionale, reo secondo i suoi detrattori (che sono numerosi almeno quanto lo sono i suoi estimatori) di divertirsi nel torturare e scioccare gli spettatori e di approcciarsi ai personaggi dei suoi film come se fossero insetti da sezionare o delle povere cavie da laboratorio. Il suo cinema pare qui voler stemperare i toni, “ammorbidirsi”, ricorrendo alle sottili armi dell’ironia e del sarcasmo, osando far ridere il proprio pubblico che, nel farlo, si ritrova un po’ stranito e a disagio. Siamo più nell’ambito della dark comedy che sul versante del dramma glaciale, come ben testimoniato dal finale, che per un attimo sembra voler virare i toni in tragedia, ma con un notevole colpo di coda si rivela beffardo e irrisorio (sebbene non proprio happy).
In una delle scene più intense ed emozionanti del film c’è un chiaro e palese riferimento ad Amour. Gli ultimi due lungometraggi dell’autore di origini bavaresi non sono accomunati solo dalla presenza in entrambi di Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant, ma anche da un doloroso episodio raccontato dal patriarca Georges Laurent (interpretato dall’attore francese) alla nipote tredicenne che appare da subito come un diretto e esplicito rimando alla trama di Amour.
È quantomeno doveroso sottolineare la prova superlativa di Jean-Louis Trintignant nei panni dell’ex imprenditore ormai nauseato dalla vita e dalla sua famiglia: un interprete senza eguali e dalla classe cristallina che illumina da par suo ogni scena che lo vede protagonista, come appunto nel dialogo con la nipote dopo il tentativo di suicidio di quest’ultima.
Ancora una volta il cinema di Haneke assume posizioni scomode e non concilianti, ponendo e accumulando domande. Quesiti e interrogativi a cui non intende fornire facili soluzioni o risposte di comodo. In questo suo ultimo lavoro irrompe anche il mondo dei social e il cattivo uso che ne facciamo, così come i video girati con lo smartphone con cui si apre e si chiude il film e che evocano le misteriose cassette inviate alla famiglia protagonista di Niente da nascondere, titolo premiato nel 2005 per la miglior regia sempre a Cannes.
Il tema dei migranti che aveva fatto parlare del film – ancor prima della presentazione sulla Croisette – per il fatto di essere ambientato principalmente a Calais, la cittadina francese divenuta tristemente famosa nel mondo per l’immenso campo profughi ribattezzato la giungla, in realtà appare piuttosto marginale. Il regista se ne serve per mettere ancor più in risalto la crisi di valori e l’assenza di empatia di un’Europa incurante e indifferente di fronte a tali problematiche. La macchina da presa di Haneke, come avvenuto più volte in precedenza, si sofferma sulle dinamiche distorte e sui (non) rapporti all’interno del nucleo familiare, considerato la fonte primaria di ogni male.
(1) Dei nove lungometraggi diretti da Haneke negli ultimi vent’anni soltanto il remake americano di Funny Games, uscito nel 2007, non è stato presentato a Cannes che peraltro dieci anni prima, nel 1997, aveva inserito in Concorso il film originale, che aveva fatto conoscere a livello internazionale il regista austriaco.
(2) Sia Il nastro bianco che Amour, i due titoli precedenti realizzati da Haneke rispettivamente nel 2009 e nel 2012, hanno ricevuto la Palma d’Oro.
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