Affidarsi ai morti.
Partiamo dalla fine. Gli agenti Robertson e Peterson (uno dei tanti calembours dei film di Jarmusch) scendono dalla vettura della polizia a lungo assediata dai non morti e, con consapevolezza pari a quella del “mucchio” più famoso della storia del cinema, vanno incontro al finale di una storia che, come è palese, deve andare a “finire male”. La possibilità di una svolta metalinguistica per un breve minuto fa capolino nei dialoghi, poi viene scartata in favore di un’accettazione virile della situazione.
Più chiaro di così: Jarmusch rinuncia a ricamare sopra lo zombie movie un’altra interpretazione (e così, di punto in bianco, fa sparire in una nave spaziale anche la samurai Tilda Swinton) o a disegnare l’ennesima variante del suo cinema astratto e paradossale, per restare viceversa nei binari di una storia già tante volte scritta, raccontata e vissuta. Inevitabilmente senza happy end. I morti non muoiono. Più chiaro di così. Tutto quello che passa sullo schermo in questo film rifugge la figura retorica e invita a fare tabula rasa di ciò che non sia letterale. Ripartiamo dalle origini, ritorniamo al punto di avvio. Lasciamo che il massacro si compia. Sangue e frattaglie siano in bella evidenza. Gli zombi desiderino ciò che hanno sempre desiderato quando credevano di essere vivi (e non lo erano, va da sé). Traendo ispirazione dalla lezione di Romero e in particolare del (a tutt’oggi) poco compreso Diary of the Dead (2007), Jarmusch firma un film che racconta l’apocalisse americana nella forma dell’implosione, come un collasso che toglie spazio alla fantasia e non sollecita neppure una necessaria lettura politica, tanto è consequenziale e ormai insapore. Se i suoi zombi chiedono ancora cibo, bevande, svago con tanto di brand, questa non è insomma altro che una reazione pavloviana. La stessa ironia dei resistenti sul loro comportamento è così fredda da divenire insipida, in una forma di umorismo che pare infine tanto ragionevole da essere parente del pirandelliano avvertimento del contrario. A un certo punto viene anche in mente il tardo Fellini di La voce della luna con la sua esortazione conclusiva a fare silenzio per provare a capire qualcosa sul serio. Se non fosse che quella era l’Italia già berlusconizzata del 1990, mentre qui siamo nel 2019, in America: davanti a una realtà che ha da tempo raggiunto il grado zero dell’incubo, gli esercizi di intellettualismo suonano fessi e fuori bersaglio anche da parte del solito club di marginali e consapevoli che capirono e denunciarono tutto per tempo.
Film antisnobistico come pochi altri, I morti non muoiono finisce facilmente per fare arricciare il naso a chi non sa mettersi in sintonia con esso e goderne la modestia, a tratti persino la povertà di suggerimenti. Il ritorno alla radice è ribadito dall’onnipresente tema musicale di Sturgill Simpson (anche lui compare come zombi) con la sua intonazione country e folk: Oh, the dead don’t die/Any more than you or I/They’re just ghosts inside a dream/Of a life that we don’t own. Nessuno si salva perché nessuno può salvarsi (vedere per credere come finiscono gli alternativi, gli hipster capitanati da Selena Gomez), ma non c’è compiacimento né una mestizia di maniera. Più che di prendere posizione e atteggiarsi, c’è bisogno di affidarsi. Fosse pure ai morti. Jarmusch lo ha capito e non ne ha fatto un dramma, tanti altri no.
Sign In