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Commedia italiana e commedia all’italiana non sono affatto, nonostante sia il pensiero dominante, due definizioni sovrapponibili e interscambiabili, perché individuano due campi d’azione differenti.

La commedia è un genere ben definito, omnicomprensivo, a leggere le varie piattaforme o Wikipedia; ma appartiene alla nostra cinematografia in quanto italiani, vuoi perché sia il genere a noi più congeniale, vuoi anche forse perché è realizzabile (insieme all’altro calderone, il genere drammatico) con un low budget e senza particolari sforzi produttivi. Ma sta di fatto che le sue declinazioni nel corso degli anni sono state molteplici.

La commedia all’italiana, allora, è precisamente un sottogenere che nasce alla fine degli anni cinquanta ma viene teorizzata solo quando la sua stagione si può dire conclusa, ovvero negli anni Settanta: è un rivolo, a sua volta, del neorealismo, che quindi parte dalla realtà, ma si differenzia quando lo sguardo non si limita a registrare ma si fa lettura, diventando quindi soggettivo e critico. Ecco che allora se ne possono notare i termini e le caratteristiche: l’enfasi messa su alcuni aspetti del costume, soprattutto borghese, l’accento sulle contraddizioni, le ipocrisie, il grottesco soprattutto quando non il tragico, spingendosi fino alla denuncia, avvicinandosi alla satira più colta e arguta. È insomma un dito puntato su un tipo di realtà, dietro al quale con una battuta si rovescia la realtà evidenziandone le storture in maniera grottesca e drammatica.

Senza allora guardare al merito ma restando sempre in alto, Il Ritorno di Casanova ad esempio è una commedia italiana, I Peggiori Giorni è una commedia all’italiana, o vorrebbe esserlo.

Attenzione: quel vorrebbe esserlo non deriva da una presunzione dei suoi autori (che non c’è), perché lo spunto per inserirla a posteriori, con un ragionamento critico, in questo sotto-genere viene semplicemente dalla constatazione della propensione dei suoi registi, o meglio di uno dei due, Massimiliano Bruno.

Bruno è autore di una delle opere più rivelatrici del nostro cinema moderno, Viva L’Italia, il suo secondo film da regista, piccolo gioiello misconosciuto che nella sua semplicità e nel suo involontario qualunquismo si pone come puntello della nostra società di oggi, lente deformante ma non troppo per svelarne vizi e virtù (un po’ come Ferie D’Agosto, 1996, anche questo secondo film di un grande regista e sceneggiatore come Paolo Virzì) adottando proprio l’arma del grottesco.

Che viene bene, e naturale, al nostro caro Bruno: noto alla massa grazie a Boris, nel 2007, e il personaggio di Martellone, ma che alle spalle aveva un’esperienza teatrale come autore e interprete con la quale aveva affinato la sua penna salace e sopra le righe. Il debutto come regista tout court è del 2011 con Nessuno Mi Può Giudicare (Nastro d’Argento e Globo d’Oro come miglior commedia dell’anno), ma è proprio la sua seconda opera nel 2012 che svela le carte e le sue caratteristiche migliori già pienamente definite, ovvero il tono grottesco unito ad una commedia affilata e dal gusto mainstream.

I Peggiori Giorni è la seconda parte di un dittico insieme a I Migliori Giorni: un progetto nato con il sodale e amico di sempre Edoardo Leo per due film composti da episodi, proprio come nella migliore tradizione del sottogenere di cui sopra. Senza fare paragoni, si guarda ovviamente da vicino a I Mostri, ma in campo non ci sono solo due attori bensì il gotha di un certo cinema: Anna Foglietta, Max Tortora, Luca Argentero, Valentina Lodovini, Claudia Gerini, Stefano Fresi, Paolo Calabresi, Fabrizio Bentivoglio, Giuseppe Battiston, Claudia Pandolfi, Neri Marcorè, Anna Ferzetti, Ricky Memphis, Rocco Papaleo. Un dispiego di forze incredibile, per delineare l’ipocrisia dei sentimenti messi in campo nelle festività più classiche.

Il primo film declinava l’argomento accendendo solo note comiche, eludendo la battutaccia ma cercando il sorriso amaro; questo secondo vira invece verso lidi e tonalità molto più oscure, e non è un caso se si conclude con il segmento dedicato ad Halloween. Inevitabilmente, i risultati di entrambi sono alterni, proprio per l’avvicendarsi dell’occhio dietro la macchina: se il comparto degli attori dà il meglio di sé, i due registi messi uno di fianco all’altro mettono in evidenza non solo i vizi e le virtù degli italiani, ma anche i loro.

Bruno ha dato prova, in passato, di saper esaltare i propri interpreti e di riuscire con facilità di scivolare nel dramma, senza scivoloni ma con intelligenza (Gli Ultimi Saranno Ultimi del 2015, con Paola Cortellesi, è un film straordinario senza se e senza ma); Leo, dopo un inizio promettente, si è dimostrato regista poco o niente adatto al dramma.

I primi due episodi de I Peggiori Giorni, Natale e Primo Maggio, sono i più deboli del film: la voce del regista è programmatica e mai sincera, perché costringe i suoi interpreti in una recitazione che gira a vuoto e suona in falsetto sprecando due volti perfetti come Bentivoglio e Battiston, soprattutto in un racconto che poteva essere ottimo ma alla fine è solo noioso.

Superato lo scoglio di metà film, però, la situazione cambia drasticamente: Ferragosto è una vera e propria perla. Pandolfi è in uno stato di grazia da un bel po’, Memphis ha di nuovo un ruolo degno del suo spessore: insieme, costruiscono un duetto di rara verità, che sfuma e passa da un tono all’altro in un battito di ciglia (letteralmente). Incuneandosi poi in un gioco a quattro con l’altra coppia del film: e se Neri Marcorè resta un po’ impantanato in qualche clichè di troppo, Ferzetti è incredibile.

Intorno a loro, Bruno costruisce un racconto incredibile, dall’atmosfera rovente, senza una nota stonata, dalla scenografia ai dialoghi, dalla fotografia ad una macchina da presa che si muove sinuosa e bilanciata fino ad accenni surrealisti. Un pugno nello stomaco che (non) la tocca piano riguardo ad un argomento di eccessiva attualità, senza prendere posizioni ma mettendo lo spettatore di fronte ad uno squallore fin troppo reale.

In questo modo il film assume toni epici, una specie di western postmoderno de noantri, tra sguardi sotto il sole infuocato, duelli verbali, scontri morali.

Eppure, se Ferragosto non fosse stato allora così forte, meglio sarebbe andata la visione dell’ultimo episodio, Halloween. Che pure mette in scena Papaleo in gran spolvero – ma come detto è dote di Bruno far brillare i suoi attori -, non gli fa sfigurare accanto Giovanni Storti che accentua i lati più bui della sua maschera, e trova in Sara Baccarini un volto – andando a memoria, esordiente sul grande schermo – nuovo e profondamente efficace nel dare i giusti accenti e sfumature alla maschera pericolosamente abusata di clown triste.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.