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Il debutto da primo della classe di Castellitto Junior.

L’esordio dietro la macchina da presa di Pietro Castellitto, figlio d’arte non ancora trentenne che ha mosso i primi passi in veste di attore proprio in alcuni film diretti dal padre Sergio, è destinato a lasciare una traccia rilevante nel cinema italiano contemporaneo. Presentato e premiato per la migliore sceneggiatura all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, I predatori ha avuto la sfortuna di uscire in sala nell’ultimo fine settimana di apertura dei cinema, nuovamente costretti a una triste e dolorosa serrata di almeno un mese dal DPCM del 25 ottobre.

La famiglia Vismara, di estrema destra e d’estrazione proletaria, gestisce un’armeria a Ostia. I Pavone sono invece una famiglia alto-borghese di intellettuali e di dottori appartenenti alla Roma Bene (i classici radical chic). Un giorno i destini delle due famiglie, che non potrebbero essere più lontani e diversi, si incrociano innescando una serie di eventi e reazioni a catena destinate a cambiare le loro vite.

Il debutto nel lungo di Castellitto junior, autore in solitaria del soggetto e della sceneggiatura, trasuda ambizione, sfrontatezza e anche un pizzico di strafottenza. Fin dai primi minuti I predatori si distingue per una messa in scena precisa e accurata, per il ricorso a inquadrature insolite e ricercate, per piani sequenza studiati e ostentati, per un uso insistito dei primi piani e per una colonna sonora efficace e calzante firmata da Niccolò Contessa. Ben venga l’ambizione dunque, in un panorama cinematografico italiano dove in pochi hanno il coraggio di osare e di mettersi in mostra. Castellitto non risparmia nessuno in questo suo apologo divertente e tragicomico, feroce e grottesco, riservando le sferzate più forti e violente a quel mondo intellettuale-borghese-annoiato che conosce benissimo e a cui appartiene fin dalla nascita. Potrebbero essere tanti i rimandi e le suggestioni autobiografiche, a cominciare dalla scelta del mestiere della madre di Federico Pavone, interpretato dallo stesso Pietro Castellitto, che nel film fa la regista coatto-intellettuale dall’ego smisurato. Le stilettate all’ambiente borghese-intellettuale della Roma Bene non si fermano certo qui ma si estendono a microcosmi familiari, fastidiosamente simili per non dire identici l’uno all’altro, in cui i giovani rampolli viziati rinfacciano ai genitori di averli cresciuti nella bambagia, nell’inettitudine e nell’apatia. Invece lo sguardo sui proletari, un po’ malviventi, un po’ fascisti nostalgico-folclorici, è meno feroce e severo, attenuato da una sorta di parabola di redenzione e di riscatto finale. Le scene in cui sono protagonisti ricordano e rimandano a personaggi e situazioni della commedia all’italiana dei vari Risi, Monicelli e Scola ma possiedono anche un evidente e innegabile filo rosso con Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, altro titolo italiano uscito in quest’anno 2020 così tragico e sfortunato per il cinema e per l’umanità tutta. In entrambi i titoli assistiamo ad un uso dei primi piani protratto e insistito e con uno sguardo autoriale che talvolta assomiglia a quello di un entomologo intento a studiare i comportamenti di un insetto in determinati spazi e circostanze. Certo, la fiaba dark e respingente dei D’Innocenzo è assai più gelida e perturbante rispetto ai siparietti tragicomici imbastiti da Castellitto, che si tiene volutamente e abilmente in bilico tra la risata e il pianto.

A colpire maggiormente, in un film corale in cui gli interpreti sono ben diretti e orchestrati e il cui contenuto si rifà a temi e situazioni della migliore tradizione del nostro cinema, è la forma e lo stile registico che invece guardano altrove, al di fuori dei confini nazionali, per spingersi oltreoceano, dalle parti del cinema americano. Sarà forse azzardato ma la messa in scena minuziosa e accurata, spesso volutamente stilosa e da primo della classe, talvolta evoca il cinema di Tarantino mentre alcuni quadretti “dipinti e abbozzati” dalla mdp ricordano non poco alcune situazioni viste in Fargo, la serie tv antologica creata da Noah Hawley ispirata a sua volta all’omonimo film dei fratelli Coen. Un esordio destinato quindi a non passare inosservato, così come il suo giovane autore che insieme ai già citati D’Innocenzo e ad altri nuovi registi che si sono affacciati sulle nostre scene in questi ultimi anni – come Gabriele Mainetti – potrebbe segnare un nuovo e importante corso per il cinema italiano, attento a coniugare e contaminare i temi e le istanze della nostra tradizione con ispirazioni e influenze provenienti dal panorama cinematografico internazionale.

voto_4

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.