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I RACCONTI DELL’ORSO

I RACCONTI DELL’ORSO

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Liberi di sognare.

Quante volte ci sarà successo da bambini di essere seduti in auto, con i nostri genitori alla guida che chiacchierano degli argomenti più disparati (magari a proposito del meteo?) per noi assolutamente noiosi, e poi, cullati dal placido ronzio del motore e dai suoni della strada all’esterno, siamo sprofondati in un sonno profondo e tranquillo. Lì, in quel momento e a quell’epoca ci sentivamo al sicuro come nel ventre materno, eravamo liberi di sognare. E’ questo l’incipit e l’idea alla base de I racconti dell’orso, coraggiosa opera prima firmata dai giovani registi (e in quest’occasione pure interpreti) romani Samuele Sestieri e Olmo Amato. Un film indipendente e “piccolo” e a suo modo unico, in parte finanziato tramite una campagna di crowdfunding, che è nato come un viaggio (verso la magica Finlandia) per poi trasformarsi in qualcos’altro. I registi hanno affermato di essersi ispirati a Yuri Norstein, all’animazione di Miyazaki, al primo Disney, al cinema di Terrence Malick (forse nella rappresentazione panica della natura) così come a quello di Gus Van Sant e Apichatpong Weerasethakul. Non diffidiamo della buona fede dei registi, che giustamente in merito alle loro influenze cinematografiche parlano di suggestioni “inconsce”. Più che di citazioni o riferimenti “alti”, questo I racconti dell’orso ci pare infatti un’opera radicata nella sfera più profonda della mente umana, un film-sogno che mette in scena un’esperienza onirica tout court usando come filo conduttore l’immaginazione, il ricordo, la reminiscenza. Un’ esperienza visiva che non vive o è appesantita da rimandi costruiti ad hoc, ma nasce da un genuino e vitale spleen, dove, senza cercare nessuna connessione particolare possono convivere i già citati Malick e Walt Disney, così come Sam Raimi (le riprese in soggettiva nel bosco stile La Casa), David Lynch (la transizione iniziale tra la realtà della bimba e il sogno sembra uscita da The Elephant Man), Werner Herzog e tanti altri. I racconti dell’orso, che poggia su una struttura narrativa (divisa in capitoli) semplice semplice, come quella di una fiaba per bimbi (un buffo omino rosso e un robot-monaco diventano “amici” e tentano di ridare vita ad un orsetto di pezza dal ventre scucito che trovano abbandonato nella foresta), non è un film che abolisce la narrazione come noi la intendiamo tradizionalmente, poiché, alla sua maniera, si affida ad una propria logica consequenziale e ad una struttura “classicamente” separata in inizio-sviluppo e conclusione. Il film di Sestieri-Amato insegue però questa narrazione in misura aliena e straniante, come può essere solo lo svolgimento di un sogno. Non c’è altezzosità in tutto ciò, non c’è un rifiuto sconsiderato o snobistico di obbedire alle regole a cui è abituato il pubblico. E, forse, è proprio questa sincerità, oseremmo dire ingenuità d’intenti l’arma vincente del film, che lo distingue dalla calcolata poesia di altre pellicole nostrane. I giovani registi sfruttando appieno le possibilità concesse dalle inusuali location finlandesi riescono davvero nell’impresa di restituire un mondo “altro”, facendo della povertà di mezzi un valore aggiunto. Le ambientazioni deserte in cui si muovono solamente i due protagonisti, quasi sempre all’alba o al crepuscolo, aiutati da una fotografia digitale superlativa che rende ogni elemento dell’immagine incredibilmente dettagliato e da scoprire, contribuiscono a restituire una sensazione di candido straniamento e sorpresa come ormai capita di rado in sala. Dalle preghiere rivolte ad un misterioso Dio Sole (con la brillante invenzione del campo pieno di spaventapasseri), alla rassegnazione finale per le sorti dell’orso, la vicenda dei due protagonisti scorre con la stessa naturalezza di un fiume, rasserenante come un sogno di un sonno tranquillo e innocente, quale può essere quello di una bambina. Egualmente mirabile il sound design, composto da esperimenti vocali alla Meredith Monk, musiche elettroniche, effetti sonori creati “artigianalmente” per dare voce alle molte anime della realtà onirica in cui si muovono l’omino rosso e il robot incappucciato. E pazienza se al film talvolta sembra mancare un vero punto focale, una direzione precisa, o se certe scelte tradiscono una certa incertezza di messa in scena legata all’inesperienza. Anche questo fa parte del fascino de I racconti dell’orso. Che è un’opera prima che merita incoraggiamento e rispetto, e si spera, dopo la presentazione nel circuito festivaliero, possa arrivare anche in sala.

voto_4

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".