Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi ha sempre riflettuto su se stesso riflettendo se stesso: e non tanto per fare un cinema familiare, quanto per specchiare il pubblico nel privato mettendo così in luce stranianti corto circuiti metalinguistici che aiutano a comprendere meglio il mondo e noi stessi.
Les Estivans è allora probabilmente, in questo percorso così personale ed esemplare, ad oggi l’esito più felice, più scorrevole e più luminoso della regista-attrice: dichiaratorio fin dall’inizio, con quel “sembra di arrivare in paradiso e invece è l’inferno” messo in apertura d’opera, mentre si adagia subito sullo sguardo sfuggente eppure così doloroso della protagonista (la stessa Valeria) insieme al compagno (Riccardo Scamarcio) di una storia che ancora non ha finito di finire. Arriverà poi la scombiccherata famiglia – che dalla realtà travasa sullo schermo: la sorella (Valeria Golino) sposata con il tycoon indagato per truffa, la figlia adottiva, la madre, il fratello scomparso anni prima il cui fantasma ancora si aggira tra i muri e tra le anime – a completare il quadro delle solitudini che inseguono decise una salvezza, una pace che sembra allontanarsi sempre di più, con un ritmo precisissimo e un’andatura decisa che danno al film una compattezza e un’efficacia invidiabili e notevoli. Un film, una storia sformata e abnorme, dai contorni sfumati, dagli echi letterari e artistici e dagli ingredienti squilibrati, in un ensemble che assomiglia tanto alla vita.
Tante altre cose si affollano in questa storia luminosa che racconta di angoli bui: il disagio di una lotta di classe mai finita e sempre più confusa, le macerie umane di un’alta borghesia che va disfacendosi come cenere tra le dita, dinamiche dispotiche in rapporti interpersonali accorati, l’incessante sguardo psicoanalitico che sembra risolversi in un urlo muto. Tutto raccontato in punta di penna, tutto come aderente a quella bruma che fuoriesce come nebbia mattutina, tutto così lontano e così vicino, così fragile eppure così forte e dirompente.
C’è poi, come un dolore sottotraccia, come una sequenza sottocutanea, come l’artrosi della mamma che non si arrende al pianoforte, la descrizione di un sottoproletariato ancora in debito di ossigeno e di una classe (non più dirigente, ma ancora) arroccata in una sorta di nobiltà esteriore faticosamente sfarzosa. Sintomo e metafora di un’umanità che vive e si nutre di amore, ma che quest’amore non sa riconoscerlo, afferrarlo, nutrirlo, anzi lo consuma lasciandolo ammuffire in un castello di rimozioni, in un’attesa esistenziale della distruzione che osserva da vicino e si compiace del proprio decadimento, mentre tutti si aggrappano con le unghie e con i denti a rapporti esausti, matrimoni logori, usanze antiquate. Come se ricreare la felicità potesse equivalere a possederla, a capirne i contorni, a lambirne i confini. Sull’altare della buona creanza viene anche sacrificato un figlio mai nato: e nel balletto di amore e morte che inscenano i villeggianti, le emozioni prendono il sopravvento e risalgono prepotenti, sono assenze/presenze fantasmatiche, spettri fin troppo reali che si aggirano ovunque e ci prendono in giro, afferrandoci per il cuore e trasportandoci con loro nel nulla. Fino a sparire noi con loro nella nebbia.
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