La città degli orrori.
Proviamo a dirla così: Il Figlio di Saul, al di là del palese e sempre attualissimo discorso sull’orrore estremo dell’Olocausto, sulla morale dello sguardo e sulla (irrap)presentabilità di quanto sfugge all’umana comprensione (o, nell’opposto versante, a proposito della necessità di trovare uno scopo per sopravvivere, illusorio o meno che sia), mi sembra una visione molto lucida di quanto Auschwitz nella sua follia non sia che un punto d’arrivo – un prototipo, perverso fin che si vuole – di un tratto emblematico della modernità. In modo particolare di una sua forma specifica, di un suo aspetto centrale, ossia la città, considerata qui nel significato di crocevia organico di attività umane finalizzate allo sviluppo, all’efficienza e al perfezionamento, quale forma ideale cioè per il compimento di quest’ultimo. Il campo di concentramento è di fatto una città in miniatura, pianificata nei dettagli e, benché sottoposta all’arbitrio dei vari comandanti e dei loro desideri e capricci, caratterizzata da gerarchie, comportamenti e specificità ossessive, temperate appena da zone grigie in cui si realizzano e si sciolgono alleanze e traffici illeciti permessi dalla strana permeabilità di alcune regole e meccanismi. Uno di questi è il Sonderkommando, sorta di corpo speciale di prigionieri obbligati a collaborare allo sterminio, al limite tra la complicità e l’inconsapevolezza, le cui ragioni, emozioni e azioni rimangono forse imperscrutabili (si rilegga al riguardo cosa ne scrisse Primo Levi ne I sommersi e i salvati).
Le analogie città-lager intuibili nel film non si fermano però qui, se si pone mente ad alcune delle teorie geografiche più classiche diventano impressionanti. Le baracche dei prigionieri, i campi e gli stabilimenti di lavoro, addirittura le selezioni tra chi può lavorare e produrre e chi viene mandato a morte (presentate chiaramente com’erano, nella più cieca arbitrarietà e barbara casualità: si pensi alla fosca scena notturna della fossa), sono il corrispettivo di quartieri operai, fabbriche alienanti, rituali di un’atroce socialità. Corsi e specchi d’acqua come quasi indispensabili condizioni di partenza per i fabbisogni della popolazione dell’agglomerato (oltre che potenziali vie di fuga da esso, come nel finale del film: ma anche all’opposto, cimiteri per le ceneri dei defunti). L’arrivo di provviste e derrate per il sostentamento dall’esterno (dalla campagna) secondo piani e direttive ben precise, in vista di una produzione di valore (che nel caso del campo di concentramento è solo in negativo, lo sterminio). Non più la tradizionale opposizione medievale tra città e campagna, ma l’asservimento dell’hinterland alle esigenze del centro. Si potrebbe proseguire, ma abbiamo reso l’idea.
Certo, in Il Figlio di Saul l’esordiente Nemes è interessato a raccontare una storia di resistenza individuale. Egli riproduce il caos, lo strepito, l’inferno dell’incomprensibilità del lager, la babele delle lingue e delle voci come in un tetro crogiolo urbano in cui prevalgano i peggiori istinti (in molti momenti il film fa pensare, più che a un incubo, alla vicenda di una comunità dilaniata da un cruento e spaventoso contagio, proprio come a Orano nella Peste di Camus). Il regista usa strategie discorsive che riempirebbero pagine e pagine se si dovesse analizzarne le varie funzioni (dal 4:3 al fuori fuoco e al fuori campo) nell’economia della scrittura e dell’architettura del film. Fa partecipe lo spettatore degli espedienti utilizzati da Saul per sopravvivere e portare a compimento il suo obiettivo, quello di seppellire un figlio che non è suo. Ma il film ha una portata e una radicalità superiori al suo formalismo e anche all’ambiguità della vicenda umana che racconta, e di parecchio. Come per esempio nel complesso dell’opera di Kafka, l’estrema razionalità e violenza distruttiva del moderno viene scandalosamente a galla. La suddivisione dei compiti, l’incomprensione del senso effettivo e dello scopo del lavoro che si sta facendo, l’invito/obbligo di rendersi strumenti di una serie di operazioni di cui altri hanno sancito inappellabilmente e misteriosamente l’utilità o la necessità, creano un acuto senso di stordimento e di nullificazione (non bastasse nel film quella imposta dai carnefici nazisti). Lo spazio della massima realizzazione razionale, la città che è compenetrazione e integrazione delle attività produttive, diventa nella cittadella de Il Figlio di Saul anche il terreno dell’incomprensibilità e del dolore definitivo, l’annientamento.
Non c’è pace possibile nello spazio chiuso del lager perché il senso della città è, all’ultimo stadio, la distruzione di risorse, e non la ricerca o creazione di queste. Il significato nascosto (e più pericoloso) della tecnica e della scienza moderne, basate su principi di efficienza ed efficacia, ha un suo luogo d’applicazione privilegiato nella concentrazione che si costituisce nell’ambito urbano, ossia dove più facili sono la pianificazione e l’esperimento. Tra i molti meriti del film d’esordio di László Nemes c’è anche quello, forse un po’ inconsapevole ma non secondario, di chiarirlo senza eufemismi: quando ci si domanda come sia stata possibile Auschwitz, si potrebbe fare una fermata anche qui, nel senso dello sviluppo intrapreso dall’umanità, e tornare a porsi per davvero qualche scomoda domanda.
Sign In