Nessi e connessi.
Meno male che la Tucker ci permette di godere su grande schermo di opere come questo nuovo film di Ryǔsuke Hamaguchi. In attesa naturalmente di poter conoscere anche il lodatissimo (a Cannes, dove ha anche vinto il premio per la sceneggiatura) Drive My Car, in uscita il mese prossimo. Meno male, perché di film così oggi c’è davvero un gran bisogno per ridare fiato al cinema più adulto, complesso e maturo, a prova di spettatore distratto e succube di vizi da streaming e da distrazioni social.
La prima e la più interessante delle sfide per lo spettatore che assiste al film di Hamaguchi è infatti quella di stabilire dei nessi fra i tre episodi che lo compongono. Una discreta impresa perché essi sono senz’altro godibili a sé, ma inevitabilmente manchevoli (specie il primo, certo il più striminzito) e diventano invece irresistibili se spingono sul piano inclinato dei collegamenti e delle ipotesi, in un discorso che esca dall’evanescenza letteraria e permetta un’ampia articolazione, filosofica e anche politica. Facile parlare di destino, ma il Caso è solo una delle componenti e non per forza la principale di questo film a episodi eccezionalmente interdipendenti. Il che ci porta già via dalle coincidenze kieslowskiane, per dire, e verso invece un “indeterminismo” che viene potenziato dalla scrittura del film, a cura dello stesso regista che dichiara apertamente la sua ispirazione rohmeriana. Ad Hamaguchi interessa certo mettere in rilievo l’infelicità femminile in una direzione che definirei ascendente. Lo fa con una maggiore gratuità nel primo episodio in cui la giovane Meiko è interprete di più ruoli in conflitto tra loro (da amica che raccoglie confidenze intime ad ex fidanzata che approccia di nuovo colui con cui ha interrotto la relazione fino a potenziale deus ex machina del triangolo amoroso), tuttavia appare impigliata nell’intrico della (sua) matassa: ma se si tratta di parlare di convenzioni sociali e sentimentali il segmento non appare del tutto convincente. Più compiuto e dolente il secondo racconto che trova l’acme nella lunga sequenza di lettura mirante alla seduzione dello scrittore da parte di Nao (con un finale imprevedibile), ma che condensa evidentemente il suo senso nelle più brevi scene successive della mail spedita per errore ad un altro indirizzo e, dopo un’ellissi che fa male, in quella dell’incontro con l’istigatore dell’azione che ha segnato il futuro e l’infelicità di Nao. Un modo per dirci tra le righe quanto il potere della fascinazione momentanea sia fallimentare dinanzi alle strade più tortuose ma asciutte dell’imponderabile (nel senso proprio di impossibile “da pesare”) e del gioco dei ruoli: quasi un controcanto di un altro “gioco” – se non altro volendo fare dello spirito sui titoli italiani dei film -, quello dell’assayasiano Gioco delle Coppie. E il terzo, e certo il più complesso, degli episodi allora? Rincara la dose, aumenta la complessità e mette a nudo il delicato rompicapo di una femminilità tutta e sempre da ridefinire e ridislocare in una società ancora al maschile, in cui le donne sono relegate al focolare (come evidenzia nelle interviste lo stesso autore del film) e che appaiono vincolate, avviluppate, bloccate nella complessità del loro spazio, soprattutto interiore. E così offre un senso ulteriore alla premessa del segmento, quella fantascientifica di un mondo andato offline che deve ritrovarsi e che non si riconosce più, anche se appare familiare.
Di Ryǔsuke Hamaguchi, classe 1978, del quale non vediamo l’ora di recuperare le prime opere, sentiremo parlare probabilmente a lungo, ma già fin d’ora sembra possedere i tratti di un potenziale nuovo maestro, capace di rimettere la parola e la costruzione sapiente dell’intreccio al centro della narrazione: e visti i recenti furori della critica neoirrazionalistica, affascinata soprattutto dalle immagini e dalla loro aura, non ci sembra poco (ma questa è un’altra storia).
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