La morale e la modernità.
Il cinema silenzioso e minimale al servizio della Storia. Questo l’Ermanno Olmi che da cantore del quotidiano fin dagli esordi (Il tempo si è fermato, 1959) con quest’opera sembra voler dare un quadro paradigmatico e definitivo dell’uomo e del suo destino. E il tutto senza allontanarsi minimamente dai suoi sguardi e toni precedenti. Anzi, dando ad essi contorni e quadrature che solo un regista giunto al culmine della sua arte può offrirci. Gli ultimi giorni di vita del condottiero papalino Joanni dè Medici, detto “dalle Bande Nere”, morto a soli 28 anni nel 1526, a seguito delle ferite riportate in battaglia, questa l’esile trama di un film che racchiude in sé verità sulla vita e la morte. E’ nel ‘500 che l’artista bergamasco intravede, infatti, l’inizio di quella modernità che fa dell’uomo strumento e non più essere. La modernità del pensiero e della tecnologia è più dei lanzichenecchi di Carlo V la vera nemica di Joanni. Machiavelli e le armi da fuoco, allora al loro esordio, squarciano l’esistenza e l’armatura del mestierante dell’arma bianca, conducendo all’agonia l’eroe che non conosce compromessi e archibugi, spalancando le porte della storia all’incertezza e alla vulnerabilità. Ecco che allora il cerchio naturale vita-morte, simboleggiato dallo scontro corpo a corpo, si rompe senza più possibilità di ricucirsi. E a conferma di quanto la natura umana sia recidiva nell’accompagnarsi al male, Olmi inserisce, significativamente, all’inizio del film la frase del poeta latino Tibullo sulle spade “usate oramai dall’uomo più per uccidere che non allo scopo, per cui erano nate, di facilitarne la vita”; mentre, dolorosamente rassegnato, chiude il film sull’appello cinquecentesco, seguito proprio alla morte di Joanni ”affinchè mai più venisse usata contro l’uomo la potente arma da fuoco”. La religiosità dell’autore de L’albero degli zoccoli non si appella, dunque, a nessun maligno da scacciare, crocifisso in mano, e prende invece atto del fallimento dell’uomo dinnanzi a se stesso. Il cannone, ripreso sapientemente e ripetutamente in primo piano, altro non è che il simbolo di una bocca ferina aperta dall’uomo e nutrita dallo stesso con la propria carne. Il non riuscire a dominare il proprio essere è lo scacco assoluto entro cui l’umanità si è irrimediabilmente collocata. Il tradimento machiavellico perpetrato dai Gonzaga e dagli Estensi a danno di Joanni, veicolato dal colpo di mortaio lanzichenecco che ne spappola la gamba portandolo alla morte, altro non è che uno dei milioni di gesti che hanno condotto la storia ad un tragico concatenarsi di cause ed effetti, sulla grande ruota del gioco dialettico delle convenienze . Il cattolico Olmi ringrazia dunque Marx e passa a descrivere questa terribile verità con tempi dilatati al limite dell’estenuazione, perché è nello sguardo e nell’etica della visione che il suo cinema prende corpo e significazione. La sua capacità di fondere magistralmente forma e contenuto, attraverso l’uso misurato di dettagli, primi piani o campi lunghi, fa sì che le attese e le sospensioni temporali siano i cardini di un cinema elegiaco oggi sempre più raro e per questo ancora più prezioso. Un cinema capace di sorprendere nel sapiente muoversi dei protagonisti nelle scene corali, in cui i soldati disseminati su campi di battaglia aridi, nebbiosi e senza confini sembrano fantasmi di se stessi in balìa di un destino già scritto. E quando passa alle scene individuali, l’arte di Olmi si fa somma, sfiorando il puro incantamento nella capacità che egli ha di comunicarci appieno la percezione della morte che sta vivendo il protagonista nei quattro giorni della sua agonia. Tutti, medici e soldati, si muovono attorno a Joanni moribondo in un chiaroscuro che Olmi, in maniera geniale, disegna come anticipazione di un altrove che presto accoglierà le ombre del martire guerriero, vissuto alla fine di un’epoca che in extremis lo ha accolto come eroe. E la sequenza finale dei funerali segna il momento solenne con cui si chiude un’esistenza ed un mondo oramai al tramonto.
Il ricordo della moglie e del figlio lontani, come pure della nobildonna suo segreto amore, che sul letto di morte coglie Joanni, resta relegato dentro la penombra di una visione delirante, che nel suo svanire segna la fine di un’esistenza vissuta nell’osservanza di una morale necessaria al vivere comune. Riemerge, dunque, prepotente, ancora una volta, uno dei grandi temi del cinema di Olmi: la solitudine dell’uomo dinnanzi alle grandi, imprescindibili scelte della vita. E come a voler fissare tutto ciò nella memoria dello spettatore, il regista si sofferma lungamente, nel prefinale, sul corpo oramai inerme e straziato di Joanni, ad estrema testimonianza dell’offesa che l’uomo ha irrimediabilmente arrecato al suo prossimo e dunque a se stesso. Quello di Olmi è cinema di poesia, capace quando coniugato alla storia, come in questo caso, non soltanto di emozionare ma anche di ricordare chi siamo, da dove veniamo e quale destino ci attende. Dunque, un cinema realista, lontano da ogni facile idealismo o misticismo, con una spiritualità che affonda le sue radici nella ragione. In questo Olmi va a fare compagnia al Dreyer della Passione di Giovanna D’Arco, all’Ejzenstejn dell’Alexander Nevski, al Bresson del Lancillotto e Ginevra e all’Anghelopulos di Alessandro il Grande. Anche per il grande citazionismo iconografico, da Raffaello al Bronzino fino alla grande pittura fiamminga, di cui gode la splendida fotografia del film. Per non sottacere del raffinato taglio cinquecentesco che Olmi dà ai dialoghi e al narrare delle voci fuori campo, immergendoci in pieno nel periodo analizzato e nella tragedia raccontata. La capacità di dilatare i tempi oltre le immagini, di porsi domande a cui è possibile dare risposte solo per ellissi visive, il muoversi sul terreno minato dell’indagine esistenziale senza temerne le conseguenze, tutto ciò pone quest’opera di Olmi fra gli esiti più alti della sua prestigiosa filmografia.
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