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Alla ricerca di un altro mondo sotto le apparenze del reale.

Come il funambolo che cammina in bilico sopra la gola ad altezze vertiginose, Matteo Garrone si muove con una circospezione ed una perizia incredibili tra due registri, quello comico-realistico e quello liberamente fantastico, e tra un viluppo di circostanze non indifferenti.

La prima preoccupazione del regista romano, nell’approccio a Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile e alla trasposizione filmica di tre delle cinquanta novelle che lo compongono, deve essere stata quella di non cadere. Un classico (sia pure “dimenticato”) della letteratura. Una coproduzione internazionale con attori italiani, inglesi, americani, francesi, oltre alla messicana Salma Hayek. Una sfida da vincere nella resa del fantastico accanto al quotidiano e al popolaresco, rappresentati come contigui e pressoché senza soluzione di continuità. In una condizione del genere, il minimo che si possa dire è che ci si muove su un filo sottile, e che nessuno si potrebbe di conseguenza stupire di una caduta più o meno fragorosa. Che non c’è stata perché, e va detto subito a onore di Garrone, il cineasta ha saputo tenersi lontano tanto dalle tessiture simboliche quanto dalla piatta illustrazione (in cui sono invece finiti i fratelli Taviani con Boccaccio). Per meglio dire: Garrone non ha avuto paura del fantastico, ma ha schivato la strutturazione retorica del discorso. Certamente non mancano, a volerli mettere in rilievo, temi importanti e “alti” in questo Racconto dei Racconti: dal coraggio delle figure femminili nell’autodeterminazione alla critica fierissima del potere, passando per il disvelamento della miseria delle apparenze e delle “spoglie” mortali degli esseri umani (e non solo). Ma si tratta di suggestioni, velature, nuvole all’orizzonte; la sostanza sta altrove, e questo è quello che conta.

A volerlo dunque ridurre all’essenziale, Il Racconto dei Racconti assume come nucleo centrale e problematico la ricchezza inesauribile e stupefacente delle narrazioni, la loro infinita potenzialità di scardinare qualsiasi visione, regime o condizione che si presuma definitiva. A partire da quella dittatura che è il realismo, con i suoi alfieri e corollari. Ed è qui che mi pare straordinario il lavoro di Garrone, nell’osare imboccare una direzione che forse, prima del suo film, avevano additato soltanto Big Fish di Tim Burton e l’irrisolto (ma sottovalutato) The Fall di Tarsem Singh. Ma senza morali(smi), senza squilli di tromba, tralasciando di trarre conclusioni: del resto vane se, alla fine di tutto, la corte riunita rimane ancora a naso in su ad ammirare l’acrobata che avanza sulla corda tesa e fiammeggiante, dimenticando (ma una donna, nell’ultima scena, dimentica di certo non lo è, semmai il contrario) la sua stessa precarietà e provvisorietà. Non prevale, nel film, il sentimento della dimostrazione, e nemmeno il desiderio di convincere. La macchina da presa rimane sempre un passo indietro: coerentemente, accetta che la storia la facciano i protagonisti, non (glie)la impone. Allo stesso modo, la messe di rimandi letterari e pittorici (questi ultimi onnipresenti, dal Supplizio di Marsia di Tiziano al Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi – più che a quello di Caravaggio) può così entrare nel racconto dalla porta di servizio, mentre in primo piano stanno gli attori del dramma. Se il re di Selvascura si immerge in profondità per uccidere un drago marino, la colluttazione viene giustamente celata dalla nuvola di melma che si alza dal fondale, e la pietas che si prova nel vedere il sovrano e l’animale a riva, supini e morenti, penetra nel cuore molto più di quanto possa allignarvi la successiva scena della regina che mangia il cuore del mostro per compiere la profezia del negromante. I vincitori spesso non vincono, i vinti – anche solo nella finzione – non sono sempre sconfitti: tutto scorre, cambia, muta incessantemente.

Alla larga dai toni predicatori come dalle ristrettezze delle norme e delle autorità, Il Racconto dei Racconti è una lezione di morale della visione e richiede uno spettatore sì critico, ma pronto a sospendere il suo giudizio e ad accettare il rischio di non potere (sapere) emettere una sentenza. O in ogni caso, non una sentenza definitiva.

voto_5

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.