L’ultimo film di Gabriele Salvatores.
Andando a memoria, nell’ultimo periodo sembra esserci un florilegio di registi/autori grandissimi (o quasi) che decidono di raccontare se stessi illuminati dalla luce del grande schermo e della loro macchina da presa: ci sono Alejandro Inarritu con l’irrisolto Bardo, Woody Allen con il frainteso Rifkin’s Festival, Steven Spielberg con l’immenso The Fabelmans, Paolo Sorrentino con il bello ma “sovradimensionato” E’ Stata La Mano di Dio. Insomma, sembra che gli anni Venti stiano facendo riflettere un po’ tutti, magari complice l’arrivo di una certa età: ma sono sempre più gli artisti che sentono di dover fare i conti con il tempo che passa. Poteva essere da meno Gabriele Salvatores, che da sempre con il suo cinema ha ingaggiato una lotta contro il tempo, in una fuga perenne e continua? Una fuga che partiva dal mal d’essere con Marrakech Express e non poteva che sfociare in una declinazione esistenziale: Il Ritorno di Casanova, che più che frainteso è stato ingiustamente, superficialmente sbertucciato un po’ da tutta quella critica talebana che purtroppo negli anni idioti dei social si arrocca in maniera sempre più conservatrice in un elitarismo fastidioso e arrogante, è invece un film sincero nel momento in cui diventa la summa delle ossessioni del suo creatore senza esserlo tecnicamente.
Perché Salvatores sceglie di parlare con la voce altrui (l’Arthur Schnitzler del romanzo omonimo ma anche del Doppio Sogno) e svelare le sue paure facendo ricorso, come sempre nei suoi film, ad un doppio binario narrativo. Ed è stata forse questa messa in scena duplice a confondere tanti: dimentichi che da Nirvana ad Amnèsia, fino a Io Non Ho Paura e Comedians, le storie su cui il buon Gabriele punta il suo obiettivo raccontano sempre e comunque di una doppia vita, con una doppia visione, utilizzando un doppio sguardo. Che siano il punto di vista dei bambini e quello degli adulti, o due differenti punti di vista di una storia, o ancora il sotto e il sopra geografico, o comico e dramma come due facce della stessa medaglia; il risultato è sempre un cinema che diventa vivo e vitale nel momento in cui offre una pluralità di verità e di realtà ma non indica quella giusta, ognuno la può scegliere e/o trovare da sé.
Il Ritorno di Casanova è cristallino, in questo senso: c’è Giacomo Casanova che a 58 anni sembra stanco del gioco di seduzione che ha condotto finora e decide di mettersi a nudo (anche letteralmente) per ritrovare le vecchie emozioni, e poi c’è Leo Bernardi – nomen omen - regista di successo che nella fase di ultimazione di postproduzione resta fermo ad un’impasse che è creativa ed esistenziale insieme, quando si rende conto che montare le scene di un film implica una scelta che lui non ha il coraggio di fare. Se la parte letteraria è a colori, quella contemporanea è in bianco e nero; in questo modo, Salvatores opera una precisa scelta stilistica per ammorbidire quello che forse, mentre è la sua opera più compiuta e probabilmente tra le migliori perché più intime, si fa potente ed elegante nel suo svolgersi sempre meravigliosamente sfocato, diventando involontariamente o meno una riflessione sapientemente drammatica e profonda.
C’è anche ed ovviamente il parallelo/binomio arte-vita, dove la vita è sempre sfuggente e il cinema consolatorio, e giusto in mezzo c’è lo sguardo del regista che va in avanti e mai indietro creando il cortocircuito di un film che parla del tempo che passa, ma al tempo non si concede mai, se non in rapidi flashback che sono contigui (visivamente, stilisticamente, narrativamente) al presente.
A guardarlo bene, poi, questo Ritorno di Casanova è uno dei migliori perché uno dei film più lucidi e spietati di Salvatores: grazie anche ad un casting perfetto (Natalino Balasso una spanna su tutti, ma anche Sara Serraiocco, Antonio Catania, Ale e Franz), c’è una casa che reagisce alla malinconia del suo proprietario con una sottile aria di senilità e andropausa – incendi improvvisi e allagamenti come in una tempesta ormonale – e c’è un duello col sedere al vento che mette al muro, illuminando senza pietà la stanchezza e il tempo che flaccido cade qua e là, l’inesorabilità della gravità insomma. E su tutto, la fotografia di Italo Petriccione (che segue il regista dai tempi del citato Marrakech Express) addolcisce lo sguardo e lavora su uno spettro visivo che restituisce, tramite un b/n coeso a tratti fuori fuoco e dei colori saturi e vellutati, un’opera che torna ellitticamente ad unire cinema e vita, proponendo il paradigma della memoria per l’uno e per l’altra, rimbalzando tra l’uno e l’altra, con la dolcezza di chi con la parola fine ha fatto, alla fine, pace.
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