Il Diavolo è vivo e vive tra di noi. E sta proprio nei dettagli.
Nel 1976 Pupi Avati fondava il gotico padano: un sottogenere ricco ed emozionante, che proliferava dentro il perimetro delle ossessioni, dei ricordi e delle paure del suo autore, che saccheggiava a piene mani dall’immaginario orrorifico della sua infanzia ripescando sommesse inquietudini religiose. Ieri come oggi, quando Avati torna all’horror (dopo la parentesi per nulla entusiasmante del non riuscito Il Nascondiglio) con il maestoso Il Signor Diavolo: e ieri come oggi, sono proprio i dettagli a fare la differenza e a fare paura. I dettagli: di un viso, di un vestito, di un’ombra. Di un territorio, di un sentire, di una tradizione: la paura per Avati è quel territorio di confine dove la tradizione orale incontra e si sfuma con la letteratura esoterica. In geografie emotive e spaziali di enorme fascinazione e suggestione.
Ne Il Signor Diavolo, a dispetto di quanti dubitavano di lui, Pupi ad ottant’anni suonati recupera quel sapore paesano e periferico che nasconde come retrogusto il terrore più spaventoso: “nella cultura contadina, il Maligno viene associato col deforme”. Sembra essere rimasto tutto fermo a decenni fa, a Comacchio, e fregandosene bellamente del politically correct Avati affronta una di quelle storie da gelare il sangue nelle vene raccontando le paure ataviche, legate alla superstizione che ritorna e riforma la paura. Quello che esce fuori è un film visivamente disturbante, a partire da quell’incipit shock, con uno svolgimento che è un meccanismo oscuro e complesso: un racconto nel racconto nel racconto, un processo che scivola in un interrogatorio che diventa il ricordo. E i ricordi, si sa, sono ingannevoli, così come il Diavolo.
Trama precisa e lineare, Il Signor Diavolo è uno dei migliori Avati degli ultimi anni, lucido e modernissimo nel suo ritornare al 1952, laddove la Democrazia Cristiana è al potere e il Ministero decide di mandare l’ispettore Momentè ad indagare su un caso delicato che mescola politica e omicidi: un bambino ucciso da un suo coetaneo, convinto che l’amichetto fosse l’incarnazione del Demonio. Anzi, il Signor Diavolo, perché al Demonio va portato rispetto. Pupi Avati rispetta invece il racconto e lo immerge in una fotografia gelida, lo riempie di particolari minimali e fondamentali – un collant smagliato, gocce di sudore sulla fronte, forfora, denti… – e gioca soprattutto con lo spettatore echeggiando Paura in Palcoscenico di Sir Alfred Hitchcock (basti questo come spoiler). Scava quindi nella melma della pianura e rivanga l’inconscio, proprio e di chi guarda, le botole nascoste come pozzi oscuri della memoria ed il Male che sembra annidarsi nell’uomo fin dalla più tenera età.
Una fiaba nera come non se ne vedevano da tempo, un esempio di cinema classico e proprio per questo contemporaneo, insomma il coperchio perfetto per la pentola del Diavolo.
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