Il risiko inestricabile.
Nel Tommaso Buscetta ritratto da Marco Bellocchio in questo nuovo film sembra convergere tutta la grande attitudine teatrale dell’autore di Salto nel vuoto. Chi è in effetti il “boss dei due mondi” interpretato da un Pierfrancesco Favino mai tanto concentrato, se non un attore che recita un monologo su un suo personale palcoscenico, apparecchiato e forgiato da lui stesso appositamente per sé?
Naturalmente, i tanti confronti di Buscetta con i demoni del suo passato e le angosce del suo presente, da Pippo Calò a Totò Riina, lo collocano al centro delle trame come testimone d’eccellenza dell’epoca più romanzesca di Cosa Nostra, quella del secondo Novecento, delle guerre di mafia e degli intrecci tra Stato e criminalità organizzata. Tuttavia Bellocchio chiarisce subito che non è la cronaca delle vicende malavitose e della rilevanza per la storia italiana di quegli anni a interessarlo, tantomeno la ricostruzione dei misfatti mafiosi. A inizio film, siamo già in medias res: la seconda guerra di mafia (1981-83) tra clan palermitani e corleonesi è alle viste e si tratta per evitarla. Buscetta si muove inquieto e insofferente tra le ombre di una festa che ha già deciso di abbandonare per il buen ritiro in Sudamerica, ma Bellocchio si limita all’istantanea di una falsa bonaccia e di uno splendore fasullo per scivolarsene via: con tratti tipici del montaggio di un thriller contemporaneo e un’ironia che cede il passo al sarcasmo, trasforma i botti per la festività di Santa Rosalia in quelli che caratterizzano gli attentati agli esponenti della fazione soccombente nei tre anni successivi. La verità degli accadimenti, in altre parole, non è così importante, non come la recita che sta per andare in scena e che vede don Masino come protagonista. Bellocchio prepara cioè l’entrata in scena del suo canovaccio preferito, quello che si distende tra mostri e fantasmi (veri e presunti), come spesso accade nel suo cinema.
Buscetta si scaglia contro chi diffonde tra i giovani la droga da cui era però dipesa la sua fortuna economica, si nasconde, mente alla moglie brasiliana sulle proprie generalità, si sottopone a interventi di chirurgia plastica per camuffare il suo volto: la mimesi di Favino è la stessa del mafioso che al giudice Falcone dichiarava orgoglioso di non sentirsi un pentito, ma un uomo di sani principi deluso da Cosa Nostra. Forse niente più che una commedia per togliersi di dosso il sudario dell’infame. Ma veramente solo una commedia? Per il protagonista del Traditore, essa è però tutto. Bellocchio cerca di accentuare il ritratto tragico senza ingrandire parallelamente il personaggio. Figura ambigua e bifronte come un apostata dev’essere, Buscetta si muove appunto tra almeno due mondi, in realtà di più se consideriamo le sue ossessioni oniriche (che stavolta sembrano scattare più attese e a tempo debito che in altri lavori del regista di Bobbio, più frastagliati e svincolati di questo) e le sue omissioni, almeno fino alle accuse contro Andreotti. Le sequenze delle testimonianze nell’aula bunker hanno proprio la funzione di transitare il film definitivamente dal cronachismo e dal biopic all’allucinazione di un’esistenza scissa su più piani e identità: il collaboratore di giustizia, l’uomo d’onore non rinnegato e mai davvero fuori dai bisticci mafiosi (si veda il comico nello scontro con Pippo Calò), il grande accusatore che vuole scoperchiare i legami tra Stato e Cupola, l’uomo di mondo, il criminale privo di rimorsi e persino il dongiovanni (vi allude velenosamente anche Riina nel confronto diretto).
Le molte facce di Tommaso Buscetta sono un risiko inestricabile per l’osservatore esterno, ma rendono anche impervio capire a quale effetto miri il film – un po’ come la scena con Andreotti in mutande – che più che disturbante (“indecidibile” scena finale compresa) suona in alcuni momenti vago e forse capzioso. Non significa che si tratti di un film non riuscito, vi sono in esso anzi molti brani convincenti e un’energia e un ritmo che non stancano. Ma per il Bellocchio maggiore, non si passa da qui.
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