Il cinema alla guerra.
C’è il rischio di ripetersi, con Brizé. Se non altro dicendo che il suo cinema è sempre e ancora un fatto di etica ed estetica, dove non si capisce quale venga prima e come potrebbero sussistere separate. Non nel senso banale, non secondo la prospettiva diegetica (peraltro non ci sarebbe nulla di male, visti i fatti raccontati, in cui una multinazionale senza scrupoli manca alla parola data e frustra i sacrifici di anni dei lavoratori), ma avendo riguardo alla maniera di raccontare meglio e con più pregnanza la materia bruta, il dato nudo e crudo.
Come i migliori cineasti di oggi (e di ieri), Brizé si chiede sempre quali siano i mezzi espressivi più adatti a esprimere la verità (e questa parola, qui va intesa come essenza, nocciolo, linfa vitale, idea fondante) di ciò che va raccontando. Se si tratta di raccontare una guerra, il cineasta francese adotta mezzi e metafore che la incarnino alla lettera e senza possibilità di equivoco: notare come per esempio, durante la trattativa sindacale che vede protagonista il CEO tedesco (1), le parti rimangano sempre distinte, mai rappresentate assieme, mai in un unico fronte. E non solo perché la macchina da presa assume una visuale che è tipica del reportage dal campo e del giornalismo “di guerra” moderno, ma perché la divisione meglio esprime la distanza, la contrapposizione radicale e, se volessimo ribadire e proseguire la similitudine bellica (come del resto è inevitabile fare), la vicinanza delle rispettive trincee, nell’identità con quanto avveniva durante la prima guerra mondiale in terra francese, con il preponderante esercito del Kaiser contro l’indomita resistenza dei soldati transalpini, due eserciti tra di loro tanto prossimi da potersi quasi toccare, odiare, “sentire”. E anche così radicalmente lontani da non poter entrare mai nello stesso campo visivo, se non per le rare e devastanti azioni corpo a corpo: cosa che anche nel film avviene, nella sconvolgente e repentina scena del ribaltamento della berlina, prontamente immortalato e rilanciato dai media, che ne fanno inevitabilmente un uso spregiudicato.
In guerra ha l’urgenza (2) che si conviene a un cinema militante, ma non cede a soluzioni ricattatorie. Non esplora il privato dei personaggi, se non in minima parte, perché ciò che conta è non lasciare respiro, non perdere il senso di una lotta che, anche quando si celebrano momentanei armistizi o si annunciano nuovi sviluppi, continua senza quartiere. Nella meravigliosa sequenza del presidio dei lavoratori contenuto dalle forze dell’ordine, la pressione sembra ad un tratto cedere e prorompere in una sorta di danza (sottolineata dalla regia in uno dei pochi momenti d’indugio “lirico” del film), tutti uniti, tutti consapevoli di essere parte di un solo scopo, forgiati da un’unica battaglia. Poi gli stessi lavoratori li vediamo divisi, dividersi, disunirsi nella discussione su quanto sia meglio fare. Prima i corpi che si fanno unico corpo. Poi le voci che spezzano l’unità. Il corpo, le viscere, la comunione d’azione solidificano. Le parole, i tatticismi, le letture di convenienza spezzano. Brizé non abdica alla rappresentazione del vero neanche qui, ma anche alla luce del finale del film, sembra mettere in guardia: ogni frattura è o può risultare fatale. Nessun ottimismo di maniera, nessuna semplificazione. E di fronte a tanto rigore, è arduo non udire un richiamo intenso al realismo nei comportamenti. Ken Loach, un film così, non lo saprebbe proprio fare.
(1) Il fatto che la contrapposizione sia tra francesi e tedeschi, tra animo e sangue latino e volontà di dominio e razionalizzazione teutonica, non viene enfatizzato. Ma non appare affatto un caso.
(2) Dimostrata anche dai tempi ristretti della lavorazione, se è vero che il film è stato girato in appena ventitré giorni e i dialoghi dei personaggi sono stati costruiti sul set, a partire da una trama generale.
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