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INSIDE OUT

INSIDE OUT

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Sweet emotion.

A dir la verità, la premessa è sempre stata piuttosto semplice, tutt’altro discorso invece per la sua realizzazione. Fin dall’esordio di metà anni ’90 con Toy Story, la Pixar ha infatti messo al centro del suo villaggio una cattedrale costruita su passioni inaspettate, da infondere di volta in volta a una comunità di giocattoli, a supereroi frustrati e ad animali antropomorfizzati, sempre con l’obiettivo di insegnar loro a difendere i propri desideri, lottando contro le convenzioni e le restrizioni imposte.
Inside Out non fa eccezione, ma pur affidandosi allo stesso schema, compie un passo ulteriore dichiarando fin dall’inizio il suo fine: rendere tutta la complessità della vita di una bambina di 11 anni, Riley, dando corpo direttamente alle sue emozioni. Una scelta che comportava non pochi rischi poiché si rischiava di cadere nel tranello dell’eccessiva cristallizzazione dei personaggi (le 5 emozioni vengono fin da subito “incasellate”) con il risultato di banalizzare tutto, un po’ quello che succede prima o poi a tutti i personaggi targati Disney (basti pensare ai fumetti nostrani, anche per scelta da decenni fermi all’insopportabile Topolino, al fannullone Paperino o al goffo Pippo). Tuttavia, Pete Docter e i suoi, sempre ricorrendo per tutta la durata del film al montaggio alternato, dentro e fuori dalla mente di Riley, riescono magicamente a trasformare questi “paletti” in strabordante creatività, benzina inesauribile di una storia semplice e incalzante al tempo stesso, trattando una fase della vita sempre più spesso dimenticata dal cinema di oggi: la preadolescenza di una ragazzina comune, costretta a lasciare il genuino Minnesota per trasferirsi nella città più hipster d’America: San Francisco.
E tutta la complessità di questo personaggio femminile deriva dalla geniale idea di amplificare i suoi turbamenti e le sue scelte nel conflitto principale tra la Gioia e la Tristezza, vere protagoniste del film. Quasi una forma di dialettica che vede scontrarsi tesi e antitesi per dar vita a una sintesi pressoché perfetta. Quello che poteva tradursi in un pedante manuale di psicologia dell’infanzia – nel film i manuali vengono evitati come la peste: meglio affidarsi all’istinto – diventa un’appassionante avventura antropologica, in cui pressioni sociali e legami familiari vengono analizzati entomologicamente. Con tutta probabilità quelli della Pixar avevano in mente di realizzare il contrario di ciò che avevano messo in scena in Up: dilatare a dismisura quei magnifici pochissimi minuti iniziali nei quali si raccontava la bellezza di una vita di coppia trascorsa insieme.
In Up la paura del futuro e il timore di crescere (e di invecchiare) autorizzavano i personaggi a rifugiarsi in un passato nostalgico, struggente e rassicurante. Lo stesso accade in Inside Out, prima di capire che invece bisogna sempre guardare avanti. Come insegnava il critico culinario Anton Ego in quel grande film che era Ratatouille, formidabile lezione di critica artistica e di vita, ci vuole coraggio per difendere il nuovo, ed è quello che dimostrano i personaggi principali di Inside Out. Si impara che costringendosi ad essere sempre allegri ci si rimette solamente, che spesso la tristezza è necessaria e non è solo uno spauracchio, che in fin dei conti le nostre esperienze e i nostri ricordi sono mutevoli, “sporcati” da quel mélange di emozioni che però non è altro che la vita.
Quanto all’aspetto visivo, è ormai superfluo esaltarne la straordinarietà in quanto Inside Out conserva, in tutto il suo splendore, la qualità eccelsa da sempre dimostrata in casa Pixar, perfino nei lavori meno riusciti. Anche le trovate sono ineccepibili: dal toccante inizio che vede la nascita di Riley, ai titoli di coda, passando per la produzione dei sogni. Ciò che più importa è che si piange e si ride, affascinati dal conflitto dei personaggi, a volte costretti a scelte dolorose, come quando Gioia abbandona Tristezza nella sua ricerca a oltranza della felicità.
Se la Pixar, dopo alcuni lavori “minori” forse dettati dal suo ingresso ufficiale in casa Disney e che miravano più che altro alla costruzione di un franchise – vedi Monsters University o quelli relativi all’universo Cars – sia tornata, è francamente un discorso poco interessante, così come quello che vuole Inside Out essere il suo miglior film. È meglio focalizzarsi sulle emozioni che un prodotto come questo (ma forse è lecito definirlo un’opera d’arte) può offrire, sempre e comunque. Forse Paolo Sorrentino, seppur nella sua eccessiva opulenza, aveva ragione quando in Youth affidava il suo pensiero a Harvey Keitel, che catechizzava Michael Caine sull’importanza delle emozioni. Sono tutt’altro che una “stronzata”, soprattutto quando prendono il sopravvento, quali che siano. E allora, lasciamo che sia l’emozione a parlare: Inside Out è bellissimo.

voto_5

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.